Una lettura dell’ultima raccolta di Gilberto Isella

Laura Di Corcia

“Aprire le porte-nuvole”: sin dalla prima poesia di questa nuova, felice raccolta di Gilberto Isella si delinea l’anelito dei testi che compongono Liturgia minore , soprattutto per quanto riguarda la prima sezione, intitolata Mobi-lune. Dodici poesie dedicate all’elemento aria, alla luce, alla luna (non a caso la sezione si apre con la citazione dei famosi versi leopardiani dedicati a quella che Zanzotto, un secolo più tardi, chiamerà «puella pallidula»), musa ispiratrice che muove la penna del poeta e lo invita ad un canto rotondo, giocato sulle vocali e sulle rime «aperte, ventilate» (per dirla con Caproni).

Ma attenzione: faremmo un errore grossolano se ascrivessimo questi testi alla bottega della lirica tout court . Anche la prima sezione del libro, un’interrogazione partecipata e commossa al cielo e al cosmo, è squarciata dal terrigno, dall’elemento opposto, che crea una dialettica feconda e foriera di una poesia ricca di rimandi filosofici, soprattutto all’antichità classica. Non a caso nella quarta poesia le «gobbe (…) ingannano il ponente / con flemma d’alga siderale»; mentre «Diana» riceve la luce da un bulbo. Gli opposti – la terra e il cielo – si sfidano in un gioco di specchi che crea la vita; non dal chiarore, ma dall’ombra si genera la luce.

La carne, quella al centro dell’ultima parte della raccolta («eros-anteros»), è già presente qui, come prefiguratio («talvolta la posiamo sull’altare / e lei diventa l’ostia / da cui sanguina il nostro pulsare»). Il corpo è trafitto dalle pulsioni, soffre e anela: trasfigurato, però, esso stesso diventa un riflesso di stelle. Leggiamo, nella prima poesia che apre la seconda sezione del libro: «il baco celeste caduto sul palmo / parla alla mano: / muoviti, amica larva a cinque punte! / poi la vede ascendere / evolvere in stella / con innocente foga compiangerlo dal cielo». Nella parte centrale del testo l’elemento ctonio prende il predominio: qui il lavoro sulla (e con) la lingua si fa più incalzante, il bisogno di raccontare e di denunciare corrode il verso e apre la strada ad esperimenti fonico-semantici che ricordano i migliori passaggi di Jolanda Insana. Citiamo, per esempio: «di bolla in bolla sbietta / sbanda / si dilegua / quel sapone che reggeva / correggeva / mondi». Alcuni versi ironici, invece, ricordano l’universo del poeta milanese Giancarlo Majorino: «da un truciolo del tutto / balzò il capricciosissimo / I-O / che sdentato / ora impasta nella bocca / due vocali asinine».

Se Talete e Anassimene non sono in grado di costruire «un vero e proprio sistema filosofico» (prendiamo in prestito le parole del prefattore, Jean-Jacques Marchand), l’unico modo per accostarsi al mondo è quello di lasciar fluire gli opposti: in questo Isella è eracliteo e goethiano – i rimandi al Faust sono molteplici. E se lì era l’Eterno femminino a sigillare il senso di un viaggio di conoscenza e perdizione, qui la «quête» termina con una «dama», cui si chiede a mani giunte, come in preghiera, di far sfilare «sul manto dell’inverno / le zampe a ragno del senso» e di svolgere «il lungo filo». L’amore, alla fine: un amore cercato anche nelle viscere e nei suoi aspetti più truculenti, un amore che è imparentato con la materia trasparente del cielo ma anche con i rettili. Un amore di cui, in fondo, non si sa nulla (anche se «le ali lassù parean catene bianche»). Se aprire le nuvole, quindi, è impossibile, giacché «il cosmo è fatto solo di ringhiere / e un’anta aperta / non l’hanno nemmeno le parole», non resta che amare, amare, amare. Questo, in fondo, il senso di ogni liturgia.

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