Un lettura di Anima Madre di Eugenio Mazzarella, artstudiopaparo edizioni, 2015

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“Una madre sospesa tra ieri e l’eterno” scriveva Giovanni Lindo Ferretti in “Cronaca filiale”, accostando due dimensioni temporali apparentemente contrastanti, addirittura ossimoriche. Mi sembra che questo verso possa essere un commento calzante per l’ultima opera poetica di Eugenio Mazzarella, Anima Madre. Il testo, che contiene poesie scritte tra il 2004 e il 2013, è una riflessione in versi sulla relazione madre-figlio, ma è anche il resoconto di una vita, quella di un intellettuale, di un filosofo, di fronte all’esperienza lacerante della fine. Eugenio Mazzarella è tra i maggiori interpreti di Heidegger e Nietzsche, ha avvicinato molti studenti allo studio dei grandi pensatori tedeschi, provando ad indicare una via d’uscita dalle strettoie nichilistiche del ventesimo secolo. Il suo insegnamento ha favorito una rilettura profonda del pensiero ecologico proprio a partire dal confronto con il tema della fine. Heidegger definiva l’ ”anticipazione della morte” fondante per ogni esistenza che voglia dirsi autentica, non dispersa nel “si dice” della chiacchiera e compresa nello spazio limitato del proprio mondo. Dirsi mortali significa ritrovare, a partire da sé stessi, la propria biosfera.

Ma cosa succede quando questo pensiero si confronta con il lutto radicale? A questo sembra rispondere questo volume di versi.

Si può diventare orfani a qualsiasi età, diceva qualcuno, perché ci si può sentire irrimediabilmente soli e abbandonati nel mondo in ogni fase delle propria vita, in particolare quando si deve affrontare la morte di chi ci ha generati. La malinconia rischia di diventare il sentimento dominante (“malinconia/ sola malinconia/ sfigurata mia malinconia/ un inutile insulto”) ma la perdita in realtà ha sempre un ruolo attivo in questo volume. Tanto per cominciare ha ispirato nel poeta l’idea di accostare i propri testi alle foto di Mimmo Jodice. Il famoso fotografo napoletano ritrae volti e busti femminili di statue antiche, il cui viso è stato eroso dal tempo. Nei suoi scatti manca l’armonia apollinea che deve avere caratterizzato le statue in epoca greca o latina. Così come accade con l’immagine dell’Amazzone a cui sono accostati i versi sopracitati. Il catalogo delle donne prosegue con l’atleta della villa dei Papiri, Artemide, Athena ed altre. Le brevi composizioni di Mazzarella sono in questo caso delle ekphrasis su un tema ricorrente: la centralità del lutto per la madre diventa il confronto con il femmineo, con la parte attiva, procreatrice, mentre il passivo nulla è tutto avvertito nelle parole astratte di certi filosofi, così come recita l’esordio di un lungo poemetto per frammenti: “Il troppo niente/Risolto dalle mani/ Fatto cose/ Nessuno ha creduto alle proprie parole/ La pochezza in agguato dei filosofi”. Dal “conglomerato d’ombre” si attende una “benedizione petrificata” (versteinerten Segen) per dirla con i versi di Paul Celan, autore vicino alla poetica di Mazzarella, ed è qui che arrivano le risposte, le parole che sorgono dall’ombra: “Resto/ e sono pietra/ e silenzio che dice/ e il vuoto mi fa piena/ argine puro/ Essere.” Le immagini delle donne non sono quindi dei semplici  modelli per un esercizio di stile o per una sterile copia del vero, sono esperienza  dell’immagine che resiste nel tempo. Il femmineo diventa nella poesia di Mazzarella generatrice di tempo in quanto ci porta dal passato ciò che è ancora da venire, e che resterà tale: “Sono il futuro/ sono davanti a te/ ti mangio tutto il presente”. Recita un breve componimento aforismatico dedicato all’angelo di Benjamin. O ancora con tono più confessionale: “non è riuscito il tempo a togliermi dal volto/ la bellezza/ anche l’offesa ha avuto/ la sua grazia/ nei miei occhi riposa/ ogni protesta/ non c’è stata tempesta”. L’immagine, più che essere preclusione della possibilità, attiva la volontà desiderante, tantoché il processo melanconico diventa la ragione stessa della produzione poetica. Ci si trova stretti tra la scomparsa della forma e la sua permanenza. Il connubio tra l’opera di Jodice e i versi di Mazzarella funziona come una traslazione della ragione del lutto in riflessione sottile sulla natura stessa del vedere o meglio dell’immaginare.

L’anima, citata nel titolo, è il fiato che si emette tra “il vuoto di sé stessi” e  l’essere “sbandati nel niente”. Queste considerazioni aiutano certo a cogliere quanto di misterioso si cela nella presenza del tempo, ossia negli esseri finiti che tengono i fili delle nostre traiettorie esistenziali, perché non di sola carne siamo fatti ma di sostanza biologica e tempo, o sedimentazione verbale, e la fine delle esistenze a noi più care getta luce sulla tela discreta che ci sostiene nel mondo: “Basta. Non cambiare più niente. Fate morire con calma le cose che ci sono. Nel loro respiro. Senza affanno. Il tempo verrà. Anche per loro. Non tiratele i piedi. Hanno già i dolori alle ginocchia. Il pensiero veloce non le inganna. Sanno che fanno. E dove vanno mentre fanno. Siedono con calma mentre cadono. Sanno sparire. Di togliere il disturbo conoscono i modi. La maniera silente che non sbatte la porta. Che non ferma l’aria nel naso interdetto di chi parla. Non c’è fastidio ad avere pazienza. Tutto si potrà dire. Non che non abbiano saputo stare. Là dove dovevano. Nello spazio modesto di ogni cosa. Che non urla e non corre. E sa finire.”

Eugenio Mazzarella ha pubblicato i volumi di poesia Il singolare tenace (I quaderni del battello ebbro, 1993), Un mondo ordinato (Palomar, 1999), Opera media (Il melangolo, 2004).

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