LE PAROLE DELLA FINE
Rainer Maria Rilke
di Claude Aveline (traduzione di Laura Liberale)
Credo nessuno abbia mai osato far notare che, col suo viso affilato, il naso lungo, i baffi alla cinese, lo sguardo dolce, assorto e triste, Rilke assomigliava a una piccola foca. Non ci sarebbe nulla di offensivo, la foca è un animale magico. Simboleggia, meglio di altro, meglio di qualsiasi frutto o fiore, incluse le rose di cui parleremo, la concezione rilkiana della vita e della morte. Prima, di per sé, una massa, un peso, come di scultura immutabile – si sa quanto Rilke ammirasse Rodin, più per ciò che li differenziava reciprocamente che per il suo genio. E poi, d’improvviso, non appena quel bronzo s’è lasciato scivolare in acqua, la pura velocità in mille avvitamenti. In quell’acqua che è elemento poetico per eccellenza, poiché può sia sostenere l’uomo sia ucciderlo, può riflettere le cose rendendole impalpabili e angoscianti, inventarsi colore e movimento quand’essa non ha né movimento né colore, mostrare agli occhi che sappiano penetrarvi nel profondo, come quelli d’un Rilke, la non contrapposizione tra mondo visibile e mondo invisibile, nonché la centralità della morte nella vita.
Rilke o il Poeta. Era assillato dal volerlo essere sempre di più, umilmente e magnificamente certo che nulla d’essenziale era ancora stato detto. Partito dalla Boemia, aveva misurato la sua ispirazione in tutta Europa, dalla Russia all’Italia, dalla Scandinavia alla Spagna, ma soprattutto a Parigi, dove Malte Laurids Brigge, il suo doppio, scontrandosi con le miserie più apparentemente prosaiche, aveva potuto raggiungere una delle espressioni supreme della poesia. Quando infine Rilke scelse la Svizzera, per stabilirsi nel piccolo castello solitario di Muzot, il Vallese che scoprì dalla sua torre gli ricordava la Provenza. Per “riunirsi manifestamente (…) alla Francia e all’ineguagliabile Parigi”, vi scrisse dei versi in francese. Ed è da qui che affronto il mio argomento: come Rilke morì, o il mistero della Rosa.
Siamo all’inizio del 1926. Da tre anni, Rilke non sta bene, e da un anno è peggiorato. La cinquantina gli sembra una tappa difficile da superare. Il 27 ottobre del 1925, ha fatto testamento. Durante l’inverno e la primavera del ’26, ha di nuovo soggiornato nel sanatorio di Valmont, non lontano da Muzot. In aprile, pubblica a Parigi un piccolo volume di poesie in francese: Vergers, suivi des Quatrains valaisans. Lui che aveva disseminato di rose la sua opera - come scordare quel “petalo di rosa d’una donna straniera” con cui si chiude la Canzone d’amore e di morte dell’alfiere Christoph Rilke? - non ne mette alcuna in Verzieri, benché il giardino di Muzot ne sia pieno. Ma lo stesso mese invia a Maurice Betz, suo traduttore e amico, un taccuino contenente altre poesie in francese, tra cui quella intitolata Cimetière:
C’è un retrogusto della vita in queste tombe? E le api trovano nella bocca dei fiori una quasi-parola che tace? O fiori, prigionieri dei nostri istinti di felicità, tornate a noi coi nostri morti nelle vene? Come sfuggire al nostro dominio, fiori? Come non essere i nostri fiori? È con tutti i suoi petali che la rosa s’allontana da noi? Vuole essere solo-rosa, nient’altro-che-rosa? Sonno di nessuno sotto sì tante palpebre?
Teniamo a mente quest’ultima domanda: “Sonno di nessuno sotto sì tante palpebre?”, e proseguiamo.
In autunno - Rilke non sa che morirà nel giro di qualche settimana - un giovane editore olandese, Alexandre Stols, che pubblicava dei testi classici e contemporanei, per la maggior parte in francese, veri capolavori di tipografia, riceve un manoscritto e una lettera. “Vorrei”, diceva Rilke, “(…) che lei mi facesse l’onore di inserire nel suo bel catalogo questo ciclo delle Rose che ho appena ritrovato tra le mie carte (…) Sarebbe una gioia vedere accettata la mia proposta!”.
Quindi Rilke, che nei mesi precedenti s’interessa alla pubblicazione o alla diffusione dei suoi versi in francese, avrebbe dimenticato un insieme di ventiquattro poesie d’indiscutibile - egli sapeva giudicarsi - qualità? Non aveva piuttosto temuto di confessare, per evitare il destino, che quella serie era stata appena scritta o completata? Con questi versi per esempio:
Contro chi, rosa,
ti sei dotata
di tali spine?
La tua gioia troppo fine
a divenire
ti ha forzata
questa cosa
armata?
Ma da chi ti protegge
quest’arma esagerata?
Da quanti nemici ti liberai
che paura non ne hanno?
E invece tu, dall’estate all’autunno,
ferisci le attenzioni
che ti danno.
Poiché, in quell’autunno del 1926, una rosa l’aveva ferito.
In verità lui non la curò affatto; la tagliò bensì insieme a molte altre per donarla a una giovane egiziana straordinariamente bella e sensibile, l’ultimo degli innumerevoli affetti femminili di cui questo poeta-fanciullo aveva sempre avuto un bisogno costante.
L’insignificante puntura s’infetta. Già malato, è talmente sofferente e stanco da voler risalire a Valmont il 30 novembre, certo che da lì non avrebbe più fatto ritorno. Gli restavano da vivere ventotto giorni. Furono tremendi. Il 15 dicembre scrive al suo amico Rudolf Kassner: “Un’alterazione poco nota delle cellule del sangue (era leucemia) diventa il punto di partenza dei più crudeli dei fenomeni, diffusi in tutto il corpo. Ed io, che non sono mai riuscito a guardarlo dritto in faccia, imparo ad adattarmi allo smisurato dolore anonimo”. Scrive alla Wunderly-Volkart, sua vecchia amica, che lo avrebbe raggiunto e sarebbe restata con lui sino alla fine: “… giorno e notte, giorno e notte: l’inferno! Lo si conoscerà”. Eppure diceva che un malato di cui aveva parlato ne I quaderni di Malte soffriva assai più di lui. Un riferimento che doveva certamente restituirgli un’altra pagina di quel testo:
Il desiderio di avere una propria morte diventa sempre più raro. Ancora un po’ e sarà raro quanto l’avere una propria vita (…) Si muore alla meno peggio, si muore la morte appartenente alla malattia che si ha (…) e il malato non ha, per così dire, nulla da fare. Nei sanatori, dove si muore tanto volentieri e con tanta riconoscenza per medici e infermiere, si muore di solito una delle morti predisposte dall’istituto; ciò è ben visto.
Ma come la leucemia non è una specialità di Valmont, così la morte di Rilke non potrà essere quella di chiunque. Egli non dimentica neppure di avere scritto una volta ne Il libro della povertà e della morte (che dovremmo citare integralmente):
Signore, dà a ciascuno la sua morte
nata da quella vita
in cui conobbe amore, senso e pena.
Poiché non siamo che la buccia e la foglia.
La grande morte che ognuno porta in sé
è il frutto attorno a cui tutto muta.
Perciò egli rifiuta i calmanti che avrebbero potuto ridurre la sua lucidità. Ma rifiuta parimenti i fiori: la loro “presenza eccita i demoni di cui pullula la stanza”. Un giorno dice alla Wunderly-Volkart: “Mi aiuti a morire la mia morte”.
Ed essa sopraggiunge il 29 dicembre, alle cinque del mattino.
Quando il suo testamento viene aperto, vi si scopre, oltre al desiderio di essere seppellito in un piccolo cimitero pedemontano, a Raron, l’epitaffio che lui stesso si era preparato. Due versi in tedesco:
Rosa, contraddizione pura, piacere
d’essere il sonno di nessuno sotto sì tante palpebre.
E così si chiude il mistero della Rosa. Perché ci lascia insoddisfatti? Le ultime volontà di Rilke assimilano la morte a un’assenza totale, mentre tutta la sua opera, e le recenti Elegie duinesi, l’apice, e gli ultimi Sonetti a Orfeo, affermava che “Non v’è né un al di qua, né un al di là, ma solo la grande unità”. Un epitaffio ben più soddisfacente sarebbe stata questa poesia sul fiore tardivo, tratta dalla raccolta delle Rose:
Rosa (che, nascendo, imiti al contrario
le lungaggini della morte),
il tuo inestimabile stato ti fa conoscere,
in una mistione in cui tutto si confonde,
l’accordo ineffabile del nulla e dell’essere
che noi ignoriamo?
Senza dubbio un’altra prova del fatto che Rilke, quando scrisse il suo testamento, non aveva ancora capito quanto la rosa meritasse di crescere sulla sua tomba.
Digressione, di Laura Liberale
Vale la pena, ora, riprendere la citazione da I quaderni di Malte Laurids Brigge:
Si muore alla meno peggio, si muore la morte appartenente alla malattia che si ha (…)
La frase è tratta dal brano in cui si narra la morte del ciambellano Christoph Detlev Brigge (il testo continua così, nella traduzione di Furio Jesi, Garzanti, 1974: poiché da quando si conoscono tutte le malattie si sa anche che i diversi esiti letali pertengono alle malattie, non agli uomini). Morte predisposta dagli istituti, dagli ospedali, dai sanatori, a cui nel romanzo di Rilke viene contrapposta la morte in casa del vecchio ciambellano, nonno del protagonistavoce narrante. E come viene descritta questa morte “domestica” ma non addomesticata di un tempo ormai passato? Come una presenza di cui si aveva consapevolezza o sentore, qualcosa che si portava orgogliosamente, dignitosamente in sé, come il frutto ha il nocciolo. Una morte che, nel caso specifico del ciambellano, prendeva possesso rumorosamente della casa dei vivi, scombussolando l’indolenza atavica, la sonnolenza degli oggetti consueti, che di colpo venivano afferrati, spostati, gettati via, oppure cadevano e si spaccavano (e anche qui troviamo dei petali di rosa, che scivolano fuori dai libri e vengono calpestati). Una morte che, per bocca del suo sofferente “portatore”, avanzava richieste su richieste, rifiutava il letto, pretendeva d’essere portata, pretendeva la camera azzurra, pretendeva il salotto piccolo, pretendeva la sala. Pretendeva i cani, pretendeva che si ridesse, si parlasse, si suonasse e si stesse in silenzio, e tutto ciò insieme. Una morte che, soprattutto, gridava, togliendo il sonno e il senno ai vivi dell’intero villaggio di Ulsgaard, e tutti facevano male il loro lavoro (…) ed erano così spossati dal molto vegliare e dai paurosi risvegli che non avevan più testa per nulla, e sognavano perfino di andare ad ammazzare il morente con le loro mani, per porre fine a quello strazio.
Non la morte generica, allestita in ospedale, quindi, ma la morte “propria” custodita e alimentata per un’esistenza intera: questa fu la morte cattiva e principesca che per tutta la vita il ciambellano aveva portato dentro di sé e nutrito di sé (…) Egli morì la sua pesante morte.
Il testo continua, meravigliosamente, così:
E quando penso alle altre che ho visto o di cui ho sentito parlare: è sempre lo stesso. Tutti avevano una propria morte. Gli uomini che la portavano nell’armatura, dentro, come un prigioniero, le donne che divenivano vecchissime e piccole, e poi in un letto enorme morivano come su un palcoscenico, dinanzi all’intera famiglia, alla servitù e ai cani, riservate e sovrane. Perfino i bambini, i più piccoli anche, non avevano una qualsiasi morte infantile, ma si raccoglievano in sé e morivano quel che già erano e quel che sarebbero divenuti. E quale bellezza malinconica nelle donne, quand’erano gravide e si reggevano in piedi, e nel loro grosso ventre, su cui giacevano d’istinto le mani esili, c’erano due frutti: un bambino e una morte. Il loro sorriso denso e quasi nutriente nel volto svuotato non scaturiva forse dal loro capire, talvolta, che i due frutti crescevano insieme?
Una propria morte, una morte che sia germinata e maturata dalla propria vita.
“Mi aiuti a morire la mia morte”, chiese in ultimo Rilke.
In copertina: Rilke accanto a Rodin, 1902 (Roger-Viollet).