branchie

di Viola Amarelli

siamo. donne. squilliamo smalti, mestrui, lattanti. subiamo morti. oltre. siamo. maschi. di penduli astucci l’onere e il carco. subiamo morti. vorremmo essere maschi: forti, brillanti, indipendenti- vorremmo essere donne: bellissime, dolci setose. un inframmezzo di pelli. un’empatia di ormoni. qualcuno dice: babele. ahi, babilonia. la grande. la colta, la ricca. l’invidiata dai servi pastori. le prime leggi. i canali. la gente. l’andare e venire. siamo molto diversi. sfioriamo cervelli, fondiamo respiri. androgini sciocchi. onirici. realtà ermafrodite. siamo ossa, carne, sangue. fiato. vorremmo solo mutare. bozzoli. pupe. vogliamo quello che siamo: farfalle, effimere, luci sul mare.

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presi i segni li confondiamo con i semi, vivificati, si pensa successivamente – linearmente all’acqua, posizione, irraggiamento e fondi di caffè, segnacoli, fertilizzanti, prodotti di risulta d’antracite, marrone scurissimo nuance di nero mogano fetente, per una capigliatura impellente. le catene si tengono, basta infilarle strette.

le avole avevano tomboli, alla bisogna uncinetti nonché ferri da calza polivalenti, per aborti e fusilli giorni di festa, giorni impuri di ovuli aggettanti, ora ora per fortuna non più qui altrove sempre sì, basta spostare l’asticella, il confine il lemmete cronotopico, a’ sciorta ultimissimamente ripetè lady hawk, maschera di cicatrici, zigrinìo d’acido e cuoio. uno sballo, acquattarsi aspettando che passi, respirando sott’acqua dalle canne, dai giunchi, da zufoli pastorali-torrente di montagna, seccagna estiva, segna. e taci, sul cervello.

la cartapecora è ammuffita, troppo sott’acqua ammollata, luccicano pixel bytici, luccicano emoticon, bestioline, sorrisoni. lacrimucce per le miss fontanelle, nessuno più ci casca, aria da imbarazzo, troppi, l’area è affollata troppa, stia d’elefanti, chiamano questo posto terra. cerco branchie.

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come i diari di bordo, i registri dei lloyds, i bollettini dei dispersi, gli elenchi di carceri, le bottiglie dei naufraghi, ci muoviamo nella nebbia di numeri, aspettiamo munera, eterni bambini, da fuori, nelle follia delle folle, affolliamo archivi, regesti, faldoni di nomi nemici, esterni, ignoti, negli specchi riflessi, vi cataloghiamo, ci gonfiamo di cifre, simboleggiamo un altrui nell’altrove imminente – giusto un poco più in qua, eccolo un punto più in là, ci si sprona a vicenda, permutando idilli novelli con inni stantii e istantanee di giostre, nei cerchi avvitati più stretti, più laschi a seconda del secolo, del trompe-l’œil che ci inganna, cateratta d’annata, ribaltiamo le accuse, respingete gli addebiti, cercate gli indizi, compulsiamo i fascicoli per le armate dei morti, i fantasmi dei suoni, le luci radenti, le ombre svanenti, riaccendiamo le lampade, rispondete con fiaccole, fumano lacci, bastoncini di cera per contare i paesi, le spianate, gli appelli, chiamasi dio quel che non si conosce, ci aggiriamo confusi, vi sperdete da soli, il rimpallo – e daccapo si riapre il catalogo.

(da “Singoli plurali”, lavoro in corso)

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