La ricerca della conoscenza/luce e lo scacco della malinconia/ombra. Una riflessione su La nobiltà dell’ombra di Valerio Mello

Ad agosto Carteggi Letterari si prende una pausa e sospende la programmazione ordinaria. Riproporremo post apparsi nel primo anno di attività. Qui un intervento su “La nobiltà dell’ombra” di Valerio Mello pubblicato il 24 aprile 2014.


Copertina-MELLO-360x600

Già nel titolo di questa raccolta ben strutturata del giovane Valerio Mello c’è tutta l’ansia della ricerca e del lato riflessivo della vita, lato oscuro per molti ma linfa di sopravvivenza che risuona dentro la spinta alla conoscenza che solo in pochi hanno. Così La nobiltà dell’ombra non è un andare a capo per mera posa, per una questione di vezzo (come oggi accade in tanta pseudo-poesia) ma un far ripartire la ricerca ad ogni verso, nel continuo tentativo di ritrovare un filo che sempre sfuggirà, sebbene la parola è ancora l’unico cenotafio atto e possibile a contenere la conoscenza anche se essa talvolta può essere emblema del vuoto che ci abbraccia e, in qualche caso, ci travolge (Nobile sei l’ombra/ sei l’immagine/ che a volte si espande/ e a volte si attenua/ nei paesi uggiosi della mente…//[…] Per sponde inconoscibili/ come acqua remota e fluttuante,/ sei l’ombra-veglia/ sugli anni dei ruderi,/ l’instancabile guardiano/ che ruvide sopporta/ stagioni di righe/ e in questo crocevia/ congiunge cammini,/ interminabili getti/ del sonno vivente.).
Ma perché l’ombra? La risposta potrebbe essere stata trovata, in termini quasi genetici, da un maestro assoluto di ogni poeta siciliano e non: Lucio Piccolo. Intervistato da Vanni Ronsisvalle per un documentario RAI girato nel maggio del 1967, il poeta dichiarava: «[…] Comunque questa mia predilezione per l’oscurità, per la penombra, non è come potrebbe sembrare un atteggiamento esteriore, risponde di un’esigenza interna comune a noi siciliani, credo, quasi a contrasto della troppa luce che ci circonda: rifugiarci nell’oscurità di noi stessi e ritrovare quanto abbiamo perduto, esorcizzare il tempo, la morte.». Mello sembra sondare partendo dalle medesime profondità interiori, tuttavia agendo anche con un pendolo fisico ed intellettuale tra la sua isola e le sponde comuni a molti emigrati di lusso quali Angelo Maria Ripellino, Giuseppe Bonaviri, Bartolo Cattafi, Vincenzo Consolo, Basilio Reale, Melo Freni, Emilio Isgrò e altri. Viene a crearsi in tal modo una poesia ambivalente di tipo nostalgico-coloristico con diversi tratti di somiglianza coi precedenti illustri (vediamolo in particolare con un parallelo cattafiano: Lettera dall’entroterra):

In questi colori di piante, di pietre
e di prati – distanti
dal verde dell’isola nostra –
scende improvviso un quieto lamento;
[…] stridono i tram nel cerchio cittadino,
stridono d’acciaio le curve rotaie…

e Cattafi:

Dovrei ora parlarvi dell’estate
in questo posto
vetrocemento
asfalto acciaio
ma l’agosto ha frescure insospettate
luce di mare
tende verdi drizzate sulla costa

E il tentativo di conoscere va espletato sino in fondo, sino agli angoli più reconditi, amari con azioni anche frustranti ma necessarie che, per mezzo della parola, sondino ogni anfratto per restituirne ogni possibile lampo nella pagina. È una operazione assai simile a quella delle poesie segniche di Cattafi, in cui si innesta la metafora vita-scrittura. Così scrive Mello:

Io esorto questi termini comuni
perché esplorino gli alloggi dell’oscurità,
diano vigore ai fogli, ai bordi
del vocabolario,
riescano a usare il nitido chiarore
nel quadro; infine,
si costruiscano per i morti
barche solari, ponti ed eterne linee.
Su, giù, ovunque astratte poesie.

o ancora in un’altra lirica che rimanda a Creazione del poeta de L’osso, l’anima;

È qui la vita,
si scriva qui,
avverbio o posto
non si può intuire,
se passa o resta
il tempo morire,
verbo infinito
su questo foglio
 estro o scoglio
dove si sforma il mare.

e Cattafi:

In quel muro in quel foglio
nell’area bianca che la tua mano cerca
il mignolo bagnato nell’inchiostro
sopra strisciato con fiducia
azzurro corso d’acqua rapinoso
vena arteria in cui scorre
a occhi chiusi il mondo.

oppure un’altra, che rimanda anche a molti lemmi tipici della scrittura segnica di Cattafi (scrittura, pagina bianca, lettera, punteggiatura, matita, stesure, ecc.):

Si manifesta la scrittura
sulla pagina bianca
ieri dicevo lontana
scoscesa come pietra di scoglio
nascosta all’ombra del primo verso
lettera minuscola
cosa vorrà oggi l’estro
nella gabbia senza punteggiatura
dove ogni spazio fra i termini
produce vita e ancora più vita
e a questa punta di matita
obbediente al movimento
demando ogni luce ogni perdita
rivolgo supplici le mie dita
ed è così piccolo l’attimo delle idee
presto un ricordo nella moltitudine
smarrito nel creare vorticoso
oltre il fiume
restano le pause le incertezze
poi altre maledette stesure.

Oltre alla spiccata somiglianza verbale è possibile riscontrare la propensione al flusso di coscienza grazie alla privazione della punteggiatura, anche se la vicinanza lemmatica denuncia ancora un distaccamento dal modello originario solo parziale (aspetto questo che andrà curato nelle raccolte future).
Le strutture ambivalenti derivanti dalla fitta tramatura di luce-ombra, di spinte centripete-centrifughe che rilasciano alternativamente sensazioni malinconiche o proattive, contribuiscono a creare pezzi di rara fattura in cui è possibile scorgere un’intera poetica basata sulla nostalgia dei miti e, seppur in embrione, alimentata – anche visivamente – da incastri chiastici (Sicilia):

Ti saluto, sabbia leggera,
racconto di antichi approdi,
a grevi anni da grevi ricordi
mi cresce nel petto quest’uomo
che scrive per te e filtra i richiami,
le nuvole sul ripido fianco,
ti scopre forma del volto perduto,
sconfitto e rinato. Chimera,
fulgida resina, lucente su spiagge,
dalle tue coste alle mie stanze
segrete nel corpo sperduto,
odore di alghe.

Talvolta la dettatura trascende in forme più intime, concentrate ossessivamente sulle antinomie e sulle lacune conoscitive che provocano supplizî. L’ambiente urbano qui non riveste più solamente una funzione di cornice ma vive di scatti allegorici che simboleggiano l’abisso umano e l’attesa di una quiete mentale mai risolta né risolvibile.

I miei abissi nidificano tra le chiome
dei platani cittadini,
i miei abissi sopra queste cortecce
a chiazze non cercano né un dio
né l’occasione per il conforto.

Come gli alberi porto pazienza
sui marciapiedi, fra i clacson
delle strade chiassose, ed immobile
nell’urbano fragore attendo il sole
sulle foglie dispiegate.
E con le radici soffocate
dal cemento e dalle cicche,
la mia quiete è nel legno invisibile
al di là di ogni umana fede,
oltre ogni punto di domanda su dio.

Così invece scriveva Lucio Zinna, con lemmi assai vicini alle future declinazioni metaforiche di Mello, ma con l’idea di destabilizzare un’incipiente era di iper-progresso:

Abbandonano gli uccelli l’anticrittogamica campagna.
Attentàti da diserbanti e bracconieri emigrano
con celeste meridionalità e s’inurbano.
[…] stazionano sui rami con disinvolta discreta vucciria
volano a folte squadriglie sui tetti perlustrando.
Sistematici rivestono marciapiedi sedili di un bigio
escrementizio bersagliano cofani pellicce incomparabili
aerei cecchini.
[…] Sorge un’era di urbanesimo ornitologico un pennuto
sessantotto si profila…

Insomma tutta la ricerca di Valerio Mello si basa sullo scrutare in profondità il lato interiore (ombra) per ricavarne costantemente quelle zone di luce (nobiltà) che possano ristabilire un nesso (un senso?) con un mondo perduto, così come ancora non del tutto sondate appaiono le stesse oscurità dell’animo cui la poesia tenta di ridare vita attraverso il continuo lavorio di versi che sempre si susseguono e sempre sfuggono. Sicilia come Memoria dunque e non solo: del resto anche lo stesso Lucio Piccolo avrebbe sagacemente sentenziato che «per gli intelligentissimi Greci, Mnemosine era la madre delle Muse e dunque la Memoria è madre della Poesia!».

Diego Conticello


Foto di copertina: Valerio Mello

Rispondi