InVersi Fotografici XI – Dell’illeggibilità dell’essere umano: Mario Cresci Vs Massimo Gezzi

di Cinzia Accetta

Mario Cresci realizza la serie Ritratti mossi a più riprese, nel 1967 e poi nel 1974, concentrandosi sulla rappresentazione di figure umane dal volto inafferrabile, cancellato attraverso il mosso fotografico. Le immagini di questi interni in bianco e nero accentuano il contrasto tra gli oggetti e i luoghi che risultano a fuoco e quindi sono descrivibili, e le persone rese illeggibili.

Mario Cresci - dalla serie Interni Mossi - autoritratto Barbarano Romano,1978
Mario Cresci – dalla serie Interni Mossi – autoritratto Barbarano Romano, 1978

L’inVerso fotografico che vi propongo è assonante nell’intersezione che crea con le poesie “solide” di Massimo Gezzi. E se “Un mattone conta più delle parole/che lo imitano appoggiandosi/una sopra l’altra” l’essere umano si fa oggetto preferenziale della ricerca poetica restando inafferrabile e illeggibile come “i cadaveri dei granchi/per metà sono già vento, invisibili e reali/come l’amore, i cromosomi.”

Anche in questo caso la fotografia appare mossa per lo scorrere veloce delle figure che attraversano la nostra vita, alcuni per qualche minuto, altri per poche ore o per anni, per poi svanire e lasciare che “si popolino di altri le stanze/che occupavamo noi.”

il nostro dovere di uomini liberi
è di contare le finestre illuminate
nel buio

Mario Cresci, Interni Mossi, 1979
Mario Cresci, Interni Mossi, 1979

Poco prima

Le braci degli sms che si spengono,
la stanza inerme sprangata
in cui tutte le notti affiora una polla
d’acqua e luce, che chiede di sedersi
sul cuscino, a contemplare.
Il sonno atomico che marchia
il materasso delle doghe,
il fondale plasmato dalla notte
a piccole dune. E l’esistenza quotidiana,
fatta di carne e vetri sporchi,
la cenere sottile dell’alba
che scavalca le colline e pronuncia
sulle labbra di ognuno la parola
misteriosa, quella che fa sfilare dalle porte
le sagome instabili dei corpi, poco prima
che scocchi il rintocco sul quadrante
e si popolino di altri le stanze
che occupavamo noi.

*

Tuesday Wonderland

Settembre, si direbbe. O forse una mattina
di metà maggio: il treno, il paesaggio
assopito dell’Oberland, contro il fumo
pesante delle fabbriche, sullo sfondo –
era il solito percorso
da casa alla stazione, cinque minuti
(poco meno), prima di prendere la rampa
di scale mobili che ascende
al cielo grigioazzurro di Länggasse.
Una musica ripetitiva scardinava
la catena degli eventi: la signora
diretta al suo lavoro, come sempre,
il folle barbuto che aguzzava gli occhietti
sbirciando il contenuto delle tasche:
un giorno come tanti, probabilmente martedì.
Il treno rallentò, le porte si aprirono.
Le scale mobili ripresero a salire
al primo tocco di piede.
Le cose restarono tutte quel che erano
l’attimo precedente: la luce fu luce,
gli autobus autobus,
gli aceri gli stessi, con qualche foglia in più.
Eppure sembrava lo sapessero tutti,
mentre tranquilli aspettavano al semaforo
o carichi di spesa, a piedi o in bicicletta,
svoltavano un angolo, e non c’erano mai stati.

*

Ultimo trasloco

Come se ci fosse altro tempo, oltre a questo,
altri giorni per sentire questo freddo
salutare, imparare un’altra lingua,
bussare a una porta socchiusa, entrare –
le processioni sulle auto sul corso, l’intuizione
di un bene nascosto al di là
di tutti i muri e che solo rinunciando
a tutti i muri brillerà
(come la tavola del mare corrugata
dalla brezza scintillava
di origine ai prime raggi dell’alba).

Allora il nostro dovere di uomini liberi
è di contare le finestre illuminate
nel buio. Perché sul confine
tra il paese e la campagna una donna
si è svegliata a ruminare la sua angoscia
(disoccupazione, amore inconfessabile che svelle
la serratura della porta, malattia).
Perché un uomo abbandona
la sua casa una notte e tutti pensano
che è vita, in fondo, quella, è bellezza.

Nei mobili ereditati dai nonni i nipoti
leggono il passato come gli anni
nel legno, accarezzano le assi
e risvegliano il timbro della voce
degli assenti, li invitano nella casa
pitturata di fresco, li sistemano
negli angoli, acquattati
con il viso schiacciato sulle ginocchia a mormorare
la preghiera che il vento ogni sera
chiede al mandorlo, la perfetta consistenza
del tuo sangue che attraversa
ogni singolo millimetro di te,
senza svegliarti.

*

L’amore, i cromosomi

Passo sulla cenere di un fuoco, affondato
in un cratere di carbone. Qualcuno qui
ha incrociato parole, contorni, sospeso
al filo dell’alba che avrebbe
di nuovo sfoderato la bandiera della boa,
la riga dei legni accumulati sulla riva.
Seduto qui vicino, sento ancora il tepore della sabbia,
il benessere che dà, quando è notte,
un corpo più caldo dell’aria e della pelle.
Non ho capito niente più di questo:
ho incontrato e scordato molti uomini
e donne negli anni, ne ho visto maturare
i figli e i tumori, a volte la stanchezza contenuta
nei piccoli particolari apparentemente
privi di interesse, come un capo
vecchissimo dai colori troppo accesi,
o un sedile anteriore troppo ingombro
per essere almeno per ipotesi abitato
da qualcuno. Verranno a questa spiaggia
uomini e bambini: rideranno nella luce,
senza che un no a tutto questo possa essere
un no per davvero: i cadaveri dei granchi
per metà sono già vento, invisibili e reali
come l’amore, i cromosomi.

*

Mattoni

Se volessi un mattone dovresti prendere
un mattone, per rabberciare una muraglia
o per tappare una buca
in un pavimento a lisca di pesce.

Un mattone: un solido che vive dentro tre
dimensioni, pesa, al tatto sembra
ruvido o poroso, e lasciato ammucchiato
assieme ad altri per lungo tempo fa
da nido a millepiedi, ragni e forbicine.

Un mattone che esiste, che spaccato col martello
fa tac una volta sola, un suono bello,
di mattone, secco, preciso.

Un mattone conta più delle parole
che lo imitano appoggiandosi
una sopra l’altra.

Io con la poesia vorrei fare mattoni.

[Massimo Gezzi, L’attimo dopo, Sossella, Roma 2009.]


Mario Cresci – Biografia:

Nato a Chiavari nel 1942, Cresci si forma al Corso Superiore di Industrial Design di Venezia. Tra il 1966 e il 1967 con il gruppo di urbanistica Il Politecnico, nato a Venezia intorno al sociologo Aldo Musacchio, scende a Tricarico, un paese in provincia di Matera. Il progetto è la realizzazione del piano regolatore del paese e il compito di Cresci è quello di occuparsi della grafica degli elaborati e del rilevamento fotografico degli ambienti, degli oggetti e di tutti gli aspetti della vita sociale e produttiva della comunità. E’ il tempo in cui sociologi e intellettuali calano nel Mezzogiorno, riscoperto alla luce delle narrazioni di Carlo Levi e delle ricerche antropologiche di Ernesto De Martino.
Dopo questo primo viaggio e dopo alcuni spostamenti, tra 1968 e 1969, fra Roma, Parigi, Milano, Cresci torna in Basilicata e stabilisce la sua casa a Matera, fino al 1988, quando si trasferisce a Milano, e successivamente a Bergamo. La lunga permanenza in Basilicata gli permette di lavorare sui concetti di territorio, memoria, archivio, temi che intreccia in modo “naturale” alle questioni del progetto, dei linguaggi espressivi, della visione, centrali nella sua opera.

Guarda il video:

MARIO CRESCI


Massimo Gezzi – Biografia

Massimo Gezzi (Sant’Elpidio a Mare, 1976) ha pubblicato i libri di poesia Il mare a destra (Edizioni Atelier, 2004), L’attimo dopo (luca sossella editore, 2009, Premi Metauro e Marazza Giovani) e Il numero dei vivi (Donzelli Editore, 2015) più la plaquette trilingue In altre forme/En d’autres formes/In andere Formen, con traduzioni in francese di Mathilde Vischer e in tedesco di Jacqueline Aerne (Transeuropa, 2011). Ha curato l’edizione commentata del Diario del ’71 e del ’72 di Eugenio Montale (Mondadori, 2010) e l’Oscar Poesie 1975-2012 di Franco Buffoni (Mondadori, 2012). In Tra le pagine e il mondo (Italic Pequod, 2015) ha raccolto dieci anni di interviste ai poeti e recensioni a libri di poesia. Vive a Lugano, dove insegna italiano presso il Liceo 1.

0 pensieri su “InVersi Fotografici XI – Dell’illeggibilità dell’essere umano: Mario Cresci Vs Massimo Gezzi

  1. L’ha ribloggato su Cinzia Accettae ha commentato:

    la fotografia appare mossa per lo scorrere veloce delle figure che attraversano la nostra vita, alcuni per qualche minuto, altri per poche ore o per anni, per poi svanire e lasciare che ” si popolino di altri le stanze/che occupavamo noi.”

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