Carteggi juke-box: Confessioni Di Un Malandrino – Angelo Branduardi

Considerato uno dei brani più conosciuti di Angelo Branduardi, “Confessioni di un malandrino” nasce dall’incontro tra la musica del cantautore e polistrumentista – nato a Cuggiono (Mi) e poi trasferitosi a Genova con la famiglia a soli tre mesi – e la poesia di Sergej Aleksandrovič Esenin (nome russo: Сергей Александрович Есенин, Konstantinovo, 3 ottobre 1895 – Leningrado, 28 dicembre 1925). La composizione della canzone risale ai primi anni ’70: Branduardi – che in quel periodo frequentava la Facoltà di Filosofia – si sentì spesso ispirato dai componimenti dei suoi autori preferiti fino a decidere di musicarne alcuni. Il testo di “Confessioni di un malandrino”, infatti, – brano che fa parte del secondo album del 1975, “La luna” e che, successivamente, riapparve in molte altre raccolte – è la traduzione e il riadattamento (curato dallo slavista Renato Poggioli) delle “Confessioni di un teppista” ( Исповедь хулигана ) di Esenin.

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Poeta sovietico, di sconvolgente bellezza, bisessuale e alcolizzato, Esenin visse una vita di eccessi e sregolatezze: la sua inquietudine lo innalzò, quando ancora era in vita, ad eroe maledetto, circondato da un numero incontenibile di amanti – sia uomini che donne – e schiavo dell’alcolismo cronico, causa di terribili allucinazioni. Le donne più importanti della sua vita furono: Anna Izrjadnova, dalla quale ebbe un figlio, Jurij, arrestato durante il periodo delle purghe staliniste e morto in Gulag nel 1937 (Gulag: Glavnoe upravlenie lagerej : Direzione centrale dei lager); la famosa ballerina americana Isadora Duncan, dalla quale si separò nel 1923 dopo pochissimi anni di matrimonio; e Sofia Andreevna Tolstaja, nipote di Tolstoj, che sposò pochi mesi prima della morte, circostanza, questa, che resta ancora oggi avvolta nel più fitto mistero. Esenin apparentemente morì suicida nella stanza numero 5 dell’Hotel Angleterre. Fu trovato impiccato con la cinghia di una valigia, appeso ai tubi di riscaldamento ma, dai verbali della polizia e dall’autopsia, emersero, da subito, troppe incongruenze – lividi, graffi, tagli e schiena spezzata – tali da far pensare alla probabile, se non plausibile, esecuzione per mano della GPU, il servizio segreto russo dell’epoca. È noto, infatti, che il poeta avesse rivolto non poche critiche al regime sovietico e che si temesse per la sua vita. Nella notte tra il 27 e il 28 dicembre, Esenin – che con ogni probabilità avvertiva già di essere prossimo alla fine – scrisse con il suo sangue “Congedo“, una poesia d’amore e d’addio al poeta Anatolij Mariengof.

Riportiamo qui il testo russo ed una delle traduzioni reperibili dal web:

« До свиданья, друг мой, до свиданья.
Милый мой, ты у меня в груди. Предназначенное расставанье
Обещает встречу впереди. До свиданья, друг мой, без руки, без слова,
Не грусти и не печаль бровей, В этой жизни умирать не ново, Но и жить, конечно, не новей. »

“Arrivederci, amico mio, arrivederci.
Mio caro, sei nel mio cuore.
Questa partenza predestinata
Promette che ci incontreremo ancora.

Arrivederci, amico mio, senza mano, senza parola
Nessun dolore e nessuna tristezza dei sopraccigli.
In questa vita, morire non è una novità,
ma, di certo, non lo è nemmeno vivere”.

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“Confessioni di un teppista”

Non a tutti è dato cantare,
E non tutti possono cadere come una mela
Sui piedi degli altri.
Questa è la più grande confessione,
Che mai teppista possa rivelarvi.
Io porto a bella posta la testa spettinata,
Lume a petrolio sopra le mie spalle.
Mi piace illuminare nelle tenebre
L’autunno spoglio delle vostre anime.
E mi piace quando una sassaiola di insulti
Mi vola contro, come grandine di rutilante bufera,
Solo allora stringo più forte tra le mani
La bolla tremula dei miei capelli.
È così dolce allora ricordare
Lo stagno erboso e il suono rauco dell’ontano,
Che da qualche parte vivono per me padre e madre,
Che se ne fregano di tutti i miei versi,
E che a loro sono caro come il campo e la carne,
Come la pioggia fina che rende morbido il grano verde a primavera.
Con le loro forche verrebbero a infilzarvi
Per ogni vostro grido scagliato contro di me.
Miei poveri, poveri contadini!
Voi, di sicuro, siete diventati brutti,
E temete ancora Dio e le viscere delle paludi.
O, almeno se poteste comprendere,
Che vostro figlio in Russia
È il più grande tra i poeti!
Non vi si raggelava il cuore per lui,
Quando le gambe nude
Immergeva nelle pozzanghere autunnali?
Ora egli porta il cilindro
E calza scarpe di vernice.
Ma vive in lui ancora la bramosia
Del monello di campagna.
Ad ogni mucca sull’insegna di macelleria
Da lontano fa un inchino.
E incontrando i cocchieri in piazza,
ricorda l’odore del letame dei campi nativi,
Ed è pronto a reggere la coda d’ogni cavallo,
come fosse uno strascico nuziale.
Amo la patria!
Amo molto la patria!
Anche con la sua tristezza di salice rugginoso.
Adoro i grugni infangati dei maiali
E nel silenzio della notte, la voce limpida dei rospi.
Sono teneramente malato di ricordi infantili,
Sogno delle sere d’aprile la nebbia e l’umido.
Come per scaldarsi alle fiamme del tramonto
S’è accoccolato il nostro acero.
Ah, salendo sui suoi rami quante uova,
Dai nidi ho rubato alle cornacchie!
È lo stesso d’un tempo, con la verde cima?
È sempre forte la sua corteccia come prima?
E tu, mio amato,
Mio fedele cane pezzato?!
La vecchiaia ti ha reso rauco e cieco
Vai per il cortile trascinando la coda penzolante,
E non senti più a fiuto dove sono portone e stalla.
O come mi è cara quella birichinata,
Quando si rubava una crosta di pane alla mamma,
e a turno la mordevamo senza disgusto alcuno.
Io sono sempre lo stesso.
Con lo stesso cuore.
Simili a fiordalisi nella segale fioriscono gli occhi nel viso.
Srotolando stuoie d’oro di versi,
Vorrei dirvi qualcosa di tenero.
Buona notte!
A voi tutti buona notte!
Più non tintinna nell’erba la falce dell’aurora…
Oggi avrei una gran voglia di pisciare
Dalla mia finestra sulla luna.
Una luce blu, una luce così blu!
In così tanto blu anche morire non dispiace.
Non m’importa, se ho l’aria d’un cinico
Che si è appeso una lanterna al sedere!
Mio buon vecchio e sfinito Pegaso,
M’occorre davvero il tuo trotto morbido?
Io sono venuto come un maestro severo,
A cantare e celebrare i topi.
Come un agosto, la mia testa,
Versa vino di capelli in tempesta.
Voglio essere una gialla velatura
Verso il paese per cui navighiamo.

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Ascolta “Confessioni di un malandrino”

Il testo rielaborato da Renato Poggioli mantiene i significati del testo eseninano: nel rispetto dell’originale restano intatte la descrizione e l’atmosfera, con gli adattamenti e gli accorgimenti volti a renderla una ballata branduardiana. È il testamento del poeta “campagnolo” russo che adesso cammina con scarpe verniciate e cilindro in testa, passeggiando lontano dai luoghi di origine, mantenendo tuttavia “la frenesia di un vecchio mariuolo di campagna”: per Angelo, cresciuto in via della Maddalena – la strada decumana che taglia l’angiporto, quartiere di prostitute, contrabbandieri e gente che entrava e usciva di galera – probabilmente i versi di Esenin fanno da eco agli anni della sua infanzia, trascorsi in condizioni per nulla agiate ma ugualmente felici, così come il cantautore ha affermato in diverse interviste. La canzone di Branduardi, con il poetico scorrere delle sue strofe e quella sottile melodia ricorrente che le inframmezza, scappa e ritorna – è come trasfigurazione: due uomini d’arte si specchiano, si attraversano e donano l’uno i versi, l’altro i suoni a questa intimistica ballata.

“Confessioni di un malandrino”

Mi piace spettinato camminare
il capo sulle spalle come un lume
e mi diverto a rischiarare
il vostro autunno senza piume.
Mi piace che mi grandini sul viso
la fitta sassaiola dell’ingiuria,
mi agguanto solo per sentirmi vivo
al guscio della mia capigliatura.

Ed in mente mi torna quello stagno
che le canne e il muschio hanno sommerso
ed i miei che non sanno di avere
un figlio che compone versi;
ma mi vogliono bene come ai campi
alla pelle ed alla pioggia di stagione,
raro sarà che chi mi offende
scampi alle punte del forcone.
Poveri genitori contadini,
certo siete invecchiati e ancor temete
il Signore del cielo e gli acquitrini,
genitori che mai non capirete
che oggi il vostro figliolo è diventato
il primo tra i poeti del Paese
e ora in scarpe verniciate
e col cilindro in testa egli cammina.

Ma sopravvive in lui la frenesia
di un vecchio mariuolo di campagna
e ad ogni insegna di macelleria
la vacca si inchina sua compagna.
E quando incontra un vetturino
gli torna in mente il suo concio natale
e vorrebbe la coda del ronzino
regger come strascico nuziale.

Voglio bene alla patria
benchè afflitta di tronchi rugginosi
m’è caro il grugno sporco dei suini
e i rospi all’ombra sospirosi.
Son malato di infanzia e di ricordi
e di freschi crepuscoli d’Aprile,
sembra quasi che l’acero si curvi
per riscaldarsi e poi dormire.
Dal nido di quell’albero, le uova
per rubare, salivo fino in cima
ma sarà la sua chioma sempre nuova
e dura la sua scorza come prima;
e tu mio caro amico vecchio cane,
fioco e cieco ti ha reso la vecchiaia
e giri a coda bassa nel cortile
ignaro delle porte dei granai.

Mi sono cari i miei furti di monello
quando rubavo in casa un po’ di pane
e si mangiava come due fratelli
una briciola l’uomo ed una il cane.
Io non sono cambiato,
il cuore ed i pensieri son gli stessi,
sul tappeto magnifico dei versi
voglio dirvi qualcosa che vi tocchi.

Buona notte alla falce della luna
sì cheta mentre l’aria si fa bruna,
dalla finestra mia voglio gridare
contro il disco della luna.
La notte e` così tersa,
qui forse anche morire non fa male,
che importa se il mio spirito è perverso
e dal mio dorso penzola un fanale.
O Pegaso decrepito e bonario,
il tuo galoppo è ora senza scopo,
giunsi come un maestro solitario
e non canto e celebro che i topi.
Dalla mia testa come uva matura
gocciola il folle vino delle chiome,
voglio essere una gialla velatura
gonfia verso un paese senza nome.

Marta Cutugno

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