Dall’Isola al continente e ritorno. Il rapporto epistolare tra Lucio Piccolo e Basilio Reale ed altri paralleli poetici

di Diego Conticello

Un reciproco rapporto di ammirazione hanno intrattenuto per diversi anni Basilio Reale e Lucio Piccolo, accomunati dalla permanenza nella plaga orlandina, dove il Cavaliere di Calanovella ha risieduto – sin dal 1934 – proveniente da Palermo.

Lo testimonia un corpus di circa quaranta missive che i due si scambiarono tra il 1955 e il 1966[1], grazie al quale Piccolo si informava principalmente sulle sorti editoriali del Gattopardo del cugino Tomasi di Lampedusa e sulle attività del suo mentore: Eugenio Montale[2]. In una lettera datata 29 gennaio 1957 si legge:

«Caro Silo, La prego se le riesce possibile informarsi nel modo più privato e riservato (con leggerezza di tocco cioè) su quel che abbiano detto i diversi lettori – la commissione di lettura – di Mondadori intorno al dattiloscritto “Il Gattopardo” di mio cugino Tomasi di Lampedusa che tempo addietro io inviai a Mondadori […] ».

Accomuna i due scrittori un atteggiamento di malcelata ironia; lo si nota, per Reale, in certe battute fortemente allusive (trasposte poi nei versi) e, per Piccolo, in talune pose d’antan e in diversi passi delle sue missive ai più svariati letterati dell’epoca. Ancora da un’epistola a Basilio Reale (20 ottobre 1957):

«[…] La ringrazio delle notizie che mi dà. La situazione d’altra parte è questa: l’asiatica infuria qui e in continente, io ho già avuto qualcosa di simile ma senza la febbre e può darsi che fosse un semplice raffreddore, non vorrei che mi prendesse lissù e restare per settimane bloccato in un albergo come è avvenuto a conoscenti che mi hanno ammonito. Attendo perciò che le cose si calmino un poco e spiccherò il più lirico ed ermetico dei salti per gettarmi ai piedi del venerato Zio […] ».

Quel “venerato Zio” a cui allude Lucio Piccolo era l’amatissimo prefatore Montale e si accenna, inoltre, ad un viaggio (poi mai compiuto per le fisime ipocondriache del poeta) nella Milano dove Reale risiedeva già da qualche anno.

Le traiettorie della poesia preferiscono tuttavia non incrociarsi mai, percorrendo sì cronologie parallele[3], ma spesso agli antipodi per tematiche e linguaggio.

Così ai piccoliani ‘vorticismi’ barocchi di una Palermo fin de siécle prima e di pompose ‘naturazioni’ orlandine poi, Reale contrappone alienanti andirivieni nella industriosa metropoli “continentale”, passaggi frenetici e routinari sui navigli e ai caotici incroci cittadini; all’ossessiva ricerca di un ritmo politonale, di una musica rara e preziosa in Piccolo, fanno eco le spezzature paratattiche e atonali, create con incisi lapidari e secchi, nel nostro; alla parola cesellata, ‘siderale’, fascinosa del “barone”, vagante tra onirismi abissali e leopardiane spirali ontologiche è controcanto il realiano “minimalismo quotidiano” del nuovo homo œconomicus.

Se d’altronde è possibile attribuire a Piccolo – e lo ha già fatto Montale – quel motivo husserliano della «contraddizione fra un universo mutevole ma concreto, reale, ed un io assoluto eppure irreale perché privo di concretezza»[4], mi pare altrettanto lecito denunciare in Reale quell’assunto marxiano sull’alienazione, provocata da “strutture e sovrastrutture” da capitalismo esasperato.

Il dorato esilio orlandino di Piccolo corrobora gioco forza la sua poesia fatta di “lenticolari”[5] meditazioni cosmologiche, mentre la frenetica esistenza, soprattutto giovanile, del ‘milanesizzato’ Reale, ne spinge le opere sul versante del risalto dato all’istante emozionale o descrittivo.

Valgano due proposte poetiche iconiche rispetto alla produzione degli autori:

Non fosse per le quotidiane

abitudini: lavorare, dormire, desinare,

le cronache sportive il lunedì,

la donna che richiede la sua parte

di te che le appartiene per contratto,

il viaggio che pensi di effettuare

questa o l’altra domenica a Cremona,

come potresti ora porre un limite

al tuo dubbio d’esistere?[6]

e Piccolo:

[…] Attendono i vegliardi

sotto la cupola al segno rotondo

(in gemini) folgora l’ora eco di cosmi,

ed alle siepi del mondo

passa il brivido di fulgore

fende l’immane distesa celeste,

vibra, smuore, tace,

vento senza presa e silenzio.

Ma se il fugace è sgomento

l’eterno è terrore.[7]

Non si vuole – è ovvio – suggerire un paragone con intenti classificatorî: del resto il campo della poesia, coi suoi spazi di libertà assoluta, è il meno adatto a proporre esiti in tal senso; mi sembra però una comparazione necessaria da proporre a rinforzare le succitate impressioni critiche. Del resto, come ci ricorda lo stesso Reale, Lucio Piccolo ebbe a dargli similari consigli sulle direzioni poetiche da seguire:

«E se avessimo l’autorità e il potere vorremmo suggerirgli di sempre più discendere nel suo io, sempre più sceverare quella che è pura espressione, contrappeso di una invisibile carica spirituale, da quanto è impronta della moda corrente, futile gioco di temporanee tendenze.»[8]

In queste parole del poeta neo-barocco si intravede uno strale mirato verso quella neoavanguardia appena sorta, di cui faceva parte per certi versi anche Basilio Reale: non dimentichiamo che l’invito a calarsi nella propria interiorità era stato formulato da un uomo che apparteneva più all’Ottocento che al Novecento.

I gesti versificatorî piccoliani rimarranno di fatto isolati nel panorama letterario di un secolo costellato, com’era la storia coeva, dalla corsa impazzita verso il nuovo, il tecnologico, il futuro ammodernatore: di contro Reale ne intuisce in maniera sagace gli eventuali sviluppi in ambito poetico, cavalcando “l’onda anomala” della letteratura progressista che lo porterà verso quegli esiti innovativi e sperimentali che tanto hanno contraddistinto la sua cifra stilistica.

In sostanza, Reale ha voluto cogliere il suggerimento portandolo in direzione antilirica, uscendone a propria volta come originale – e di certo non insincero – rispetto alla strada cantabile assunta dal suo più anziano conterraneo.

***

[1] Il corpus è stato recentemente reso pubblico grazie ad una donazione elargita da Basilio Reale alla Fondazione Famiglia Piccolo di Calanovella, nel corso di una conferenza tenutasi proprio a Villa Piccolo di Capo d’Orlando dal titolo: Basilio Reale e Lucio Piccolo: un destino, la letteratura, in data 12/8/2006.

[2] Ricordo che Eugenio Montale presentò Lucio Piccolo al Kursaal di San Pellegrino Terme (Bergamo) nel 1954, in un meeting letterario dove sette poeti affermati introducevano altrettanti esordienti. Inoltre Montale scrisse l’arcinota prefazione ai Canti barocchi e altre liriche di Lucio Piccolo, editi da Mondadori nel 1956.

[3] I rispettivi esordi poetici si verificano a due anni di distanza l’uno dall’altro. Piccolo infatti viene presentato al grande pubblico nel 1954, quando aveva scritto le sole 9 liriche, nel corso del suddetto incontro letterario; Reale nel 1956 pubblicava la sua prima plaquette dal titolo Forse il mare. Milano, Schwarz. Stranamente Piccolo esordisce in età già matura (era nato nel lontano 1901), mentre Basilio Reale pubblica già a 22 anni.

[4] Cfr. Prefazione montaliana ai Canti barocchi e altre liriche di Lucio Piccolo. Milano, Mondadori 1956.

[5] Silvio Ramat ha parlato di: «attenzione lenticolare per l’oggetto» nella poesia di Lucio Piccolo, in un articolo uscito il 5 ottobre 1984 su «Il Tempo».

[6] Cfr. Le quotidiane abitudini. Padova, Rebellato 1959.

[7] Da Meridiana, in: Canti barocchi e altre liriche, op. cit., vedi nota 4. Ora in Canti barocchi e Gioco a nascondere. Milano, Scheiwiller 2001.

[8] Cito da Basilio Reale, Ricordo del poeta, in AA.VV., Lucio Piccolo, la figura e l’opera. Atti del convegno nazionale di studi sulla figura e l’opera di Lucio Piccolo (ottobre 1987) a cura di Natale Tedesco. Marina di Patti, Pungitopo 1990. pag. 24.

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