LA PAROLA ERMETICA nella poesia di Salvatore Quasimodo

di Mario Amato

Dacché il poeta Rimbaud ha dato un colore alle vocali in una celebre poesia e il linguista de Saussure ha messo in evidenzia il significante nel segno linguistico, la forma si è aperta a sperimentazioni originalissime. A mediare tali straordinarie scoperte occorre l’intervento del semiologo Lotman, per il quale – sebbene ritenga imprescindibile la forma come rinforzamento del significato – tutto non può che tendere alla significazione. Per un poeta come Salvatore Quasimodo la poesia non è mai solo astrazione artistica, ma un mezzo di consolazione; non è un momento passivo dell’esistenza, ma uno scavo psicologico, una ricerca continua dell’emozione, che aiuti ad allontanare il dolore. E’ del 1938 il rilevante saggio di Carlo Bo, il cuoreermetica dell’ermetismo, dal titolo emblematico Letteratura come vita, intento a esprimere una scrittura non come “illustrazione di consuetudine e costumi comuni, aggiogati al tempo” ma piuttosto da considerare “la strada più completa, per la conoscenza di noi stessi, per la vita della nostra coscienza[1]. Da qui il carattere attivo del fare poetico, che se è una forza ancora riflessiva, contemplativa nella fase ermetica, la rivendicazione della parola sull’azione, si tradurrà nel periodo successivo in un lavorio politico, la cosiddetta poetica civile: la lotta esistenziale per rifare l’uomo mediante la poesia. Quasimodo, nella fase ermetica, non ha inteso altro che mitizzare un mondo in frantumi per salvarlo dalle rovine della dittatura fascista.         

La poetica della parola, messa in evidenza dal giudizio positivo di Oreste Macrì, trova nel poeta siciliano la radice minima, l’atomo mutilato pronto a esplodere per cercare la vita, mediante il silenzio, in anni assai difficili di storia politica; un silenzio che si arma di lotta, secondo il verso montaliano

“La più vera ragione è di chi tace[2]”.

Montale Ungaretti QuasimodoEd è proprio a Montale che bisogna guardare per capire il contrasto tra i due grandi poeti del ‘900, i quali portano al culmine la tradizionale distinzione tra poeta di parole e poeta di cose. Da una parte, si diceva, la poetica della Parola, dall’altra la montaliana poetica dell’Oggetto. Mediante soluzioni stilistiche assai differenti si combatte per il medesimo fine: captare mediante la rivelazione di un particolare un valore universale. Se in Montale la fisicità degli oggetti si carica nello spazio, nel paesaggio che inizia a insanguinarsi presagendo la guerra, in Quasimodo lo spazio è popolato da parole che assolutizzate conducono all’emozione, immediata, ricongiunta all’essere, restituita in un deserto poetico in cui sono desolati gli elementi naturali, animali, piante, rocce, un attimo di apocalisse, in cui a sopravvivere è la parola in sé. Egli, da poeta puro del verbo (e tale purezza comporta ciecamente uno sfondo di polisemia), si comporta come un Adamo e inizia a dare le Parole alle Cose, prima ancora che tutto nasca, esista, si distrugga. E’ così che l’ermetismo ha nella sua definizione un travisamento nell’attimo in cui viene concepito come chiusura, nonché pura volontà crittografica: è da considerare piuttosto come rivelazione di un momento che supera la materia. A confermarlo è proprio un verso di Eugenio Montale:

“Tendono alla chiarità le cose oscure[3]”.

Ma addentriamoci dentro i processi linguistici convertiti all’ermetismo che hanno sdradicato la poesia italiana dagli spiriti della sua tradizione.

ed è subito seraLa versione di Ed è subito sera del 1942 risulta profondamente rielaborata dalle raccolte originarie che in essa sono contenute, poiché il poeta trovò la sua voce negli anni, e per rispecchiare la poetica della parola dovette procedere attraverso svariate modifiche e decisivi tagli: varianti stilistiche, linguistiche, strofiche, di verseggiatura e di punteggiatura. Il lavoro più sofferto non può che essere rappresentato dalla prima raccolta, il lavoro decennale che risiede dietro la gestazione del volumetto Acqua e terre del 1930, plasmato, limato, compresso più volte. Nella poesia che segue il ricordo del passato si schiude al canto lirico, lontano dalla prosaicità, non mediante l’uso del fonosimbolismo pascoliano, non più bisognoso dell’onomatopea, poiché il ricordo adesso è tutto interiore, della mente; perciò la rappresentazione di esso si affida a una tecnica tipicamente ermetica: il nominalismo:

Sotto il capo incrociavo le mani / e ricordavo i ritorni: / odore di frutta che secca sui graticci, / di violaciocca, di zenzero, di spigo []

(I ritorni, in Acque e terre)

Non più la scelta di simboli che evocano suoni esterni della natura, ma un intreccio del significante fonicamente marcato che costruisce un ordine sonoro tutto interiore:

Mi cardo la carne / tarlata dacaridi: / amore, mio scheletro. (Lamentazione dun fraticello dicona, in Oboe sommerso)

Per obbedire al verbum, Quasimodo si allontana definitivamente anche da D’Annunzio, dal famoso dogma “Il verso è tutto”. Il verso tradizionale era stato sempre concepito come metricamente esteriore, tessuto disteso, cantabile, oratorio secondo accenti difficilmente mutabili. Quasimodo decide di scardinare la tecnica, l’estetica del verso, per dissotterrare l’interno della parola, il suo valore intrinseco. Questo non significa che la metrica scompaia del tutto, specialmente nei primi versi, ma si trasforma, assumendo nuovi accenti, che se non simmetrici metricamente, trovano una perfetta musicalità. Segue il più celebre esempio, una serie di brillanti settenari ed endecasillabi:

Salgo vertici aerei precipizi / assorto al vento dei pini, / e la brigata che lieve maccompagna / sallontana nellaria, / onda di suoni e amore. (Vento e Tindari, in Acque e terre)

Lamento per il Sud Quasimodo

La metrica acquista uno spazio qualitativo, che non consiste nella scansione di endecasillabi e settenari, ma nella loro figuralità, nello spazio di cui la parola abbisogna per esprimersi, secondo una libertà di movimento, in cui a prevalere non è l’immagine in sé quanto l’idea di tale immagine. Una sorta di eco interiore, una forma mentale soggettiva al poeta, che scrive seguendo una misurazione immaginaria: una forma prima della forma. Nella seguente strofa si può notare come la cifra metrica di sdoppi: si tratta di un endecasillabo tagliato in due versi:

.

[…] la volpe doro / uccisa a una sorgiva. (Leucalyptus, in Oboe sommerso)

Il frammentismo della cultura vociana[4] che prende avvio con i primi decenni del Novecento, passando per le opere[5] di numerosi poeti, viene interpretato dagli ermetici in un modo leggermente diverso: frammento come antipoema, secondo la lezione dei decadenti.[6] Tale frammento serve a Quasimodo a livello semantico per esprimere la condizione onirica in opposizione a una realtà ripudiata per i suoi mali; ma più importante è il livello formale, di cui il frammento è perfetto per liberarsi della sintassi tradizionale, per creare un naturale linguaggio che non deve ricostruire ciò che esiste al di fuori, bensì essere quell’esistenza in sé. Egli segue quel processo di sgretolamento semantico della parola, il suddetto atomo mutilato, che escludendo la connotazione, ne lascia viva la radice pura. L’aforisma non è più possibile, poiché ormai lontani sono gli anni di Carducci e dei suoi precedenti; così l’oratoria viene surclassata dalle immagini vive che ora veicolano mediante assolute parole qualsiasi precedente concetto filosofico o morale o edonistico; una sentenziosità che diventa spirito critico nella poesia ermetica[7]:

Ognuno sta solo sul cuore della terra / trafitto da un raggio di sole / ed è subito sera.

(Ed è subito sera, in Acque e terre)

Passo dopo passo Quasimodo giunge, insieme agli altri ermetici, a codificare gli esperimenti linguistici[8] provati e annullati dei primi anni del Novecento, evadendo i limiti della grammatica tradizionale, fino scarnificare tutte le sillabe in nome della Parola, da Oboe sommerso:

Tu ridi che per sillabe mi scarno / e curvo cieli e colli, azzurra siepe / a me dintorno, e stormir dolmi / e voci dacque trepide; []

Non solo l’italiano poetico muta nel lessico e nella sintassi, ma, nel caso dei versi ermetici, si inseriscono delle infrazioni microgrammaticali[9] che modificano il tessuto della lingua. Primo fra tutti, la soppressione dell’articolo determinativo permette di assolutizzare il sostantivo affinché evochi tutto la sua essenzialità:

Ma se torno a tue rive / e dolce voce al canto / chiama da strada timorosa / non so se infanzia o amore, / ansia daltri cieli mi volge, / e mi nascondo nelle perdute cose.

(Isola, in Oboe sommerso)

Altrettanto, l’uso nuovo dell’articolo indeterminativo in luogo del previsto determinativo:

Un sole rompe gonfio nel sonno / e urlano alberi […] (Alla mia terra, in Oboe sommerso)

I plurali usati in luogo del singolare, forse per il medesimo fine di annullare l’articolo determinativo in un assente partitivo:

Giaccio su fiumi colmi / dove son isole / specchi dombre e dastri.

(Nascita del canto, in Oboe sommerso)

La narrazione lirica dei versi di Quasimodo è affidata a una sintassi elementare, fulminea, all’uso sterminato della paratassi (che talvolta rasenta l’antisintassi):

Deriva di luce; labili vortici, / aeree zone di soli, / risalgono abissi: apro la zolla / ch’è mia e madagio. E dormo: / da secoli lerba riposa / il suo cuore con me.

(Riposo dellerba, in Oboe sommerso)

L’eliminazione dei nessi subordinanti modifica la prassi grammaticale, apportando una densità lirica. Blocchi nominali di minima estensione, oltre che un uso speciale della congiunzione che coordina gli spazi:

Ma a me non ape, non miele; / e soffro e desidero. (Tramontata è la luna, in Lirici greci)

Tale congiunzione acquista un nuovissimo potere connotante, presente in una lunghissima quantità di versi, già riscontrabili nel componimento eponimo della raccolta Ed è subito sera; non meno nuovo è l’uso di tutta una serie di preposizioni convertite in nessi preposizionale, di cui i più sfruttati sono a, che assume funzione molteplice ai fini del frammentismo; di, che spesso introduce intrecci metaforici di ardua costruzione, trasformando le parti grammaticali; in, che crea altre metafore e sostituisce molti nessi subordinanti, per una lirica più essenziale, rinchiusa nel sostantivo:

Tu vieni nella mia voce: / e vedo il lume quieto / scendere in ombra a raggi / e farti nuvola dastri intorno al capo.

(Fatta buio ed altezza, in Oboe sommerso)

La punteggiatura acquista una valenza mistica, la quale semantizzata serve a suturare i frammenti, permettendo una coordinazione parallela di parole:

Alberi dombre, / isole naufragano in vasti acquari, / inferma notte, / sulla terra che nasce: // un suono dali / di nuvola che sapre / sul mio cuore: // nessuna cosa muore, / che in me non viva. // Tu mi vedi: così lieve son fatto, / così dentro alle cose / che cammino coi cieli; […] (Seme, in Oboe sommerso)

Le astrazioni si fanno palpabili, si fondono al concreto, spesso prendendo il luogo dell’aggettivo; così da rarefare l’immagine, assolutizzare gli avvenimenti in parola pura. L’uso frequente dell’analogia, che diventa figura principale dell’ermetismo, assorbe il concreto in astratto e viceversa; inoltre, eliminando il “come” della similitudine, e accostando termini apparentemente distanti tra loro, rende velocissima l’immagine; oscuro il componimento, polisemico, nonché profondamente lirico:

Dammi vita nascosta, / e se non sai me pure occulta, /notte aereo mare.

(Vita nascosta, in Oboe sommerso)

Il verbo si immobilizza purificandosi nella forma del presente semplice, per un convinto astoricismo, prettamente ermetico, che restituisce ai posteri il senso dell’eterno:

Odo. Cara la notte ai morti, / a me specchio di sepolcri, / di latomìe di cedri verdissime […] (Latomìe, in Erato e Apòllion)

Alcune strofe elidono persino la voce verbale per assorbire lo scorrere del tempo, caratteristica del mito, eternizzandolo nella staticità assoluta del nome:

Del mio odore di uomo / grazie allaria degli angeli, / allacqua mio cuore celeste / nel fertile buio di cellula.

(Del mio odore di uomo, in Erato e Apòllion)

Disperde le coordinate spazio-temporali, innescando una geografia del cuore comune a tutti, per auspicare alla realizzazione del mito, alla folgorazione universale dell’umanità:

Ci deluse bellezza, e il dileguare / dogni forma e memoria, / il labile moto svelato agli affetti / a specchio degli interni fulgori. // Ma dal profondo tuo sangue, / nel giusto tempo umano, / rinasceremo senza dolore.

(Nel giusto tempo umano, in Erato e Apòllion)

La ricerca del termine aulico inserito in un vocabolario linguistico nuovo è caratteristica a tutta l’esperienza ermetica. Tuttavia essa diviene speciale a Quasimodo, il quale sembra spingere talvolta verso una strada neoclassica, che s’intensifica in conseguenza alla traduzione dei Lirici Greci, alla ricerca di quel mito arcaico da modernizzare. Si pensi a parole come accima, accora, imbigia, o nella seguente strofa:

Ali oscillano in fioco cielo / labili: il cuore trasmigra / e io son gerbido, // e i giorni una maceria.

(Oboe Sommerso, in Oboe sommerso)

Tuttavia, la sintesi, nel poeta siciliano, viene raggiunta solo attraverso l’istinto. Ecco la più grande piega ermetica di Quasimodo[10]; piega che lo allontana poi da una caratteristica imprescindibile del nuovo fare poetico. La sua eccessiva ambiguità dettata dal dolore, dall’esilio, dalla memoria, non trova un centro dentro le radici dei suoi versi; la poesia vaga senza un punto immobile, lascia intrecciati i nodi, aperti gli spifferi, evade della responsabilità costruttiva, dissolve i simboli ora inafferrabili e oscuri, senza mai mettere in atto quella “logica lirica” che sarà invece la forza della generazione ermetica a partire da Luzi. Così che in molti versi non si riesce a decifrare la logica dei soggetti e degli elementi:

Avara pena, tarda il tuo dono / in questa mia ora / di sospirati abbandoni. // Un oboe gelido risillaba / gioie di foglie perenni, /non mie, e smemora […]

(Oboe sommerso, in Oboe sommerso)


Note:

[1] C. Bo, Letteratura come vita, 1938. (Cfr. Silvio Ramat, Lermetismo, Firenze, La nuova Italia, 1969)

[2] E. Montale, da Ossi di Seppia [1925], in Tutte le poesie, a cura di Giorno Zampa, Mondadori, Milano, 2011, p. 38.

[3] E. Montale, in Ossi di Seppia, cit., p. 34.

[4] A essi si deve la costruzione di una lingua personale che si adatta alla soggettività del poeta

[5] Molti titoli delle quali ne simbolizzano il carattere frammentario: Frammenti Lirici di Rebora, Frantumi di Boine, Trucioli di Sbarbaro; e ancora più importanti, in quanto avviamento più prossimo all’Ermetismo, L’allegria di Ungaretti e Gli ossi di Seppia di Montale.

[6] “Al decadentismo, più che alle teorie del Leopardi e dello stesso Poe (per le quali rimando al mio saggio sulla Poesia ermetica) si ricollega la teoria della poesia breve, della fulgurazione, del frammento o come altro si dica. Si è voluto, magari reagendo a una delle più solide conclusioni dell’estetica moderna, quella delle liricità che il Croce identificò con la natura stessa d’ogni poesia, epica, lirica, drammatica, far della lirica l’unico genere della poesia. E sospettosi e diffidenti verso il canto spiegato, dopo alcune facilità dell’ultimo ottocento dannunziano e pascoliano, e ostili ad ogni forma di eloquenza (di quella stessa che al Leopardi pareva indispensabile alla poesia, e che egli stesso manifestò nei suoi canti – anche la scelta di questo titolo ha il suo valore – i moderni hanno cercato di concentrare all’estremo così l’immagine visiva e plastica come il suono e la sua ombra melodica. […] il tempo della poesia non è meccanico, è spirituale.” Francesco Flora, Orfismo della parola, cit., pp. 381-382.

[7] Sulla scia della concisa filosofia ungarettiana: “la morte / si sconta / vivendo”, Sono una creatura, nella sezione Il porto sepolto de lAllegria, 1916; o montaliana: “Occorrono troppe vite per farne una”, Lestate, in Le occasioni.

[8] I crepuscoli, i futuristi, i vociani, alternano momenti di sperimentalismo e conseguenti stanchezze, per un ritorno ai classici ribadito da La Ronda. L’ermetismo riesce a sintetizzare tutte le prove ed a essere la prima completa poetica del Novecento che coinvolge tutti.

[9] Vittorio Coletti, Storia dellitaliano letterario (dalle origini al Novecento), Torino, Einaudi, 1993, p. 430.

[10] L’accenno a tale analisi si trova in S. Ramat, Lermetismo, Firenze, la nuova Italia, 1969.

0 pensieri su “LA PAROLA ERMETICA nella poesia di Salvatore Quasimodo

Rispondi