Il caso e la ragione

 di Maria Luisa Neri


Daniela Pericone, Il caso e la ragione, Book Editore, 2010

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Daniela Pericone è impegnata nel mondo culturale e letterario non solo reggino da molti anni come poetessa e critico letterario e ha al suo attivo un palmares lusinghiero di premi e riconoscimenti. Il caso e la ragione è l’ultima in senso cronologico delle sue pubblicazioni edita da Book Editore. Nei suoi versi, ho trovato immagini di fascinosa complessità in cui si manifesta quella che Fondane definiva la coscienza vergognosa del poeta, testa di ponte tra la parte insensata dell’anima e l’adorazione del pensiero.
Scrivere poesia suscita infatti stupore e sospetto. Stupisce che si faccia poesia, mentre le cose del mondo girano vorticosamente e l’indifferenza occupa le coscienze. Come gli stregati frequentatori del castello di Atlante, si vaga alla ricerca di un quid che ci dia certezza e appaghi l’ego inappagato. E coglie tutti il sospetto che chi faccia poesia e metta in versi se stesso, da un momento all’altro proponga una sua verità intorno all’esistenza che costringa a riflettere su noi stessi, sulle dinamiche che ci inducono ad assumere la forma dell’acqua, nella generale messa in crisi del modello panottico e di tutte le sue strutture. La poesia è però un bisogno e non un godimento, sempre a giudizio di Fontane, un atto e non un abbandono. È sempre un’affermazione di realtà, trasmutata dal linguaggio e dalle sue infinite sfumature. Quello che colpisce, nella produzione lirica complessiva di Pericone, sono, oltre alla materia poetica sostanziata da precise constatazioni, la straordinaria ruvidezza dello stile espressivo, nel senso che le scelte terminologiche sono di un’incisività allarmante. Il suo è davvero quel tipo di stile che Orwell faceva risalire, in 1984, all’archeolinguaggio che, come tutti sapranno, vale ad indicare le immense potenzialità e la straordinaria agilità della lingua, quando la si conosce e la si sa utilizzare.
In una di quelle mattine (p. 13) i richiami flautati di un giorno che vuole essere vissuto si scontrano con un’ossimorica “veglia di sonno”, che disegna un’immensa metafora dell’esistere individuale, soffocato dalle gabbie logiche, quelle che Pericone individua come “assenti ragioni d’assenso”. Si assiste qui al trapasso da immagini poeticamente usate (mattine d’inverno / corpo raccolto / nuvole basse) ad altre più inquietanti (si spoglia l’orgoglio / non s’alza alle cime il vessillo – in cui è dato riconoscere una eco di Baudelaire in una delle versioni di Spleen) che testimoniano la duttilità dell’uso della parole/immagini cui accennavo prima.

In una di quelle mattine
d’inverno e di folto dormire
non contano i flauti del giorno
gli accenti l’urgenza l’assillo,
nel cavo del corpo raccolto
si spoglia indistinto l’orgoglio
non s’alza alle cime il vessillo,
tra nuvole basse continua
una veglia di sonno, di nebbia
di assenti ragioni d’assenso.

(In una di quelle mattine)

Nei versi di Pericone, lo spaventapasseri (p. 14) è dichiarazione risoluta dell’urgenza di restituire veridicità al rapporto con il mondo. Quanto cristallizza l’esistenza e ne nega la “verità prima” va espunto: gli eventi insignificanti, i ricordi scadenti. Il ritratto negli occhi di chi resta va ripulito da finzioni e ipocrisie. Siffatta reductio ad unum prima che il contatto sia staccato e “il tuttonero” ricopra di oblio ogni cosa – come è nella logica della nostra terrestrità – contiene anche il rifiuto di ogni scontata omologazione di pensieri e di comportamenti.

Prima di sparire
di staccare il contatto
prima che ad ogni senso
sia dato scacco matto
occorre scremare gli eventi
trascegliere le carte
le pezze da adoperare
per ricucire l’abito
da spaventapasseri

e gettar via i ritagli
dei ricordi scadenti
riquadri già disposti
ad essere eclissati
e strato dopo strato
ricavare un ritratto
in grado di resistere
appena oltre la fine
negli occhi di chi resta

giusto il tempo di un lampo
quasi immagine vera
di grazia e d’ironia,
per un attimo ancòra
prima che il tuttonero
– come è bene che sia –
riconfermi l’oblio
di meccanica pura
nel vento planetario.

(Spaventapasseri)

Il fabbro (p. 16). Nell’immaginario collettivo, colui che forgiava le armi per il mestiere di feudatari e cavalieri. Ma anche lo storpio Efesto che lavorava nelle fucine dell’Etna. Qui è poderosa immagine dell’uomo non già faber suae fortunae, alla maniera antropocentricamente ottimistica di Giannozzo Manetti o di Pico della Mirandola, ma costruttore consapevole delle proprie catene, artefice primo delle proprie schiavitù. Ellissi di anelli di acciaio temprato, egli costruisce e, incapace di riconoscersi autore delle trappole che lo opprimono, attribuisce all’altro da sé la responsabilità della sua prigionia. Parafrasando Franco Battiato, abbiamo reso apocrifa la nostra esistenza, facendo scendere il buio sulle nostre coscienze, e destituendo di significato l’onere del vivere.

Mi dolgono i polsi
e trovo i segni delle catene,
ma dal fabbro io stesso
sono andato a saggiare
la gravezza del metallo
in ellissi di anelli,
il barbaglio di un acciaio
su misura temprato.
Batti e ribatti
avrà sempre un gran lavoro
il fonditore,
un laccio per ogni uomo,
solo che i più,
scontenti, si lamentano
credendo che qualcuno
li abbia voluti intrappolare,
non s’accorgono che
un beffardo ghigno riflettente
rimanda il loro occhio
e le mani rattenute
contano da sé stesse
la paga del carceriere.

(Il fabbro)

A morsi (p. 23). Mordere la vita ma non riuscire a cibarsene, sentendo in bocca il sapore della sconfitta (un dente si spezzava). La vita non si lascia supinamente addentare. È più forte di ogni tentativo di dominarla. È come il gioco delle carte: possibilità di ripetere le poste non ce n’è. È una soltanto la mano in cui il singolo si gioca tutto e la carta è una sola. Una, quella cui si ha diritto, che ci spetta.

Mentre mordevo la vita
un dente si spezzava,
mi chinavo a raccogliere
il pezzo mancante
e con dita maldestre
rinsaldavo quello
che era stato un incisivo,
ma che ora somiglia
a un insulso canino
la cui natura animale
mostra solo il ringhio

e la vita se la ride
del mio morso a mezz’aria.

(A morsi)

Auto da fé (p. 28). Contrariamente a quanto accade a Peter Kien, protagonista dell’omonimo romanzo di Elias Canetti, che non riesce a guardare il mondo da cui si sente offeso e verso cui prova risentimento e senso di estraneità, Pericone rivendica a se stessa un bisogno di integrità e di onestà in una dimensione esistenziale aperta al riconoscimento dell’errore e del pregiudizio, capovolgendo i termini di realtà. Non è la strega a subire le torture della Santa Inquisizione, ma ella stessa a disporla, pur senza spingersi a pretendere apostasie e sconfessioni. Il linguaggio accosta immagini di potente vivezza anche cromatica (il fuoco del rogo e la cenere) che rimandano a buie stagioni della storia e al rifiuto dell’abbrutimento dovuto all’ignoranza e alla sudditanza della coscienza (“Stavamo tutti al buio […] Io accesi un lume”, annota in un madrigale Tommaso Campanella).

Ritornano i fuochi
divampano i roghi.
Io l’eretica la strega
– io che non pretendo abiure
né concedo remissioni –
dispongo che non s’abbia
scampo alcuno
al tribunale
della mia Inquisizione
e brucino in ogni piazza
stolti gretti e arroganti
si colmi di quieta cenere
il sudario d’ignoranza.

(Auto da fé)

La sfera (p. 29) Quando l’amore o πηιλια domina il mondo, asserivano i presocratici come Empedocle e Parmenide, il cosmo assume le sembianze di uno σπηαιροσ, rotondo, perfetto, omogeneo. La sfera di cui parlano i versi è immagine dell’inesausto scorrere del tempo, del procedere senza sosta del moto degli astri, del ruotare delle lancette dell’orologio (mi viene in mente quanto c’è scritto sotto l’orologio del campanile del Duomo di Monreale: Noscis meam, nescis tuam (horam), che in un sonetto di Ciro di Pers è “Mobile ordigno di dentate rote / lacera il giorno e lo divide in ore / ed ha scritto di fuor con fosche note / a chi legger le sa: Sempre sí more”. Solo che, mentre il ciclo terrestre e degli astri si riproduce, l’uomo, vanitas vanitatum, “rindossa la veste del nulla / dal nulla che era”. Schiva e malinconica, ma veridica riflessione, questa di Pericone.

Un giro di boa
una piroetta
un circolo di lancetta
un’intera rotazione terrestre.
Da un punto d’inizio alla sua fine
completo un ciclo si compie
per breve o disteso che sia.
Poi la vela riprende a salpare
un corpo a danzare
la pendola a battere colpi
il globo a cambiare stagioni.
Ma l’uomo che nasce e vanisce
del tutto dilegua la spinta,
rindossa la veste del nulla
dal nulla che era,
deposta la maschera cruda
che occulti la sua trasparenza,
mai tolta sul filo dell’ora
ricurva che chiude la sfera.

(La sfera)

Senza sutura (p. 37). Tutta l’esistenza è contrassegnata da sofferenza e dolore le cui ferite si vorrebbero definitivamente suturare, accostandone i labbri e procedendo con fitti punti per chiuderne anche i più piccoli varchi. Fare in modo che nulla trapeli della carne vulnerata e lasciare che il tessuto si rimargini una volta per tutte, definitivamente. C’è invece una sorta di maligno intendimento a chiudere la ferita con una cerniera, per darci ogni tanto un’occhiata, spiandole il tenue zampillo di sangue a testimoniare che la ferita è sempre aperta. Così accade, – chiarisce sottilmente Pericone -: nessuna ferita, per quanto di un dolore ormai vecchio, può essere rimarginata del tutto. È sempre lì, viva, a sanguinare e c’è una sottile confortante perversione a spiarla ogni tanto.

Si dovrebbe ogni piaga
di vecchio dolore
cucire a mano
con filo di ferro,
ma se si potesse la ferita
con una cerniera
richiudere a piacere
si saprebbe ogni volta
riprovare un tremore
a dare un’occhiata
alla guerriglia mai interrotta,
a quella scalfittura
senza sutura
che resta viva odorosa aperta
sempre succosa
di sangue appena spillato.

(Senza sutura)

Mi scrivo (p. 38): l’intento di comunicare con se stessi, per riprendersi di confidenza, chiarirsi, spiegarsi. Chiedersi chi si sia diventati. Avvertirsi estranei e volersi capire. Essenziale questo intendimento che rimanda alla volontà di sapere come gli eventi, le esperienze abbiano inciso sul nostro io più profondo. Con indosso l’abito di scena (a tutti sorride) si può fare la cuccia senza rinunciare alla propria autenticità.

Mi scrivo lettere
e non mi rispondo.
Busso alla porta
e con voce artefatta
riferisco che in casa
non c’è nessuno.
Vorrei proprio sapere
dove sono finita
e chi è quell’intrusa
un po’ triste un po’ schiva
che mi abita adesso,
così remissiva che
non s’altera in nulla,
a tutti sorride
ma son solo fantasmi,
ha fatto la cuccia
nella stanza più interna
e ogni tanto passeggia
compagna degli alberi,
a ogni ramo sfogliato appende
rimpianti d’abbrivi mancati.

(Mi scrivo)

Happy feet (p. 49). Nelle Annotazioni è scritto che si tratta di un omaggio alla musica di Paolo Conte. Nulla di strano né di feticistico se “per capire un uomo” si preferisca guardare i piedi. Cogliere l’elasticità del suo passo, la pressione che esercita sul terreno, la speditezza di una camminata che espande la pianta senza arroganza, celando le contratture delle dita. Il linguaggio silenzioso dei passi denota il modo di accostarsi all’esistere, non fosse altro perché i piedi sono quella parte di noi più a contatto con l’inevitabile prospettiva terrestre che ci accomuna.

Dicono che per capire un uomo
sia bene fissarlo negli occhi
oppure osservarne la curva
errante delle mani,
ma io, non so perché,
preferisco guardare i piedi,
quel punto di contatto tra l’anima
e la terra dove il passo
misura l’affondo nella vita,
la soglia di equilibrio
tra l’incerto sfiorare
di punte da ballerina
e il pieno espandersi della pianta
a possedere tutta la terra,
e le dita, poi, costrette
dall’involucro delle scarpe
che, più che proteggerle, le nasconde
alla vista di chi potrebbe sbirciare
una contrattura eccessiva
in contrasto al sorriso
o un solletico strano e quasi impudico,
una voglia di libertà
che dal più piccolo nervo
s’irradia con un guizzo
al pensiero più lontano.

(Happy feet)

I poeti a Orfeo (p. 69). Orfeo, letteralmente “colui che è solo”, è padre riconosciuto di innumerevoli figli. I poeti, appunto. Voce umana che diventa chiave di volta per interpretare il cosmo e penetrarne la musica, disvelarne i misteri, accostarsi al nulla. Fatti per esprimere “l’eccedenza della vita rispetto alla vita stessa”, come spiega Pietro Barcellona. I soli capaci di stare nell’ombra cantando la luce.

Noi siamo tuoi figli, Orfeo,
cos’altro da noi puoi volere…
Accogliamo visioni, stormire
di voci, cerchiamo pretesti
per cantare la luce, ma più assorte
amiamo le ombre. Chi meglio di noi
sa scrutare gli oracoli, traversare
la soglia che va verso la morte…
Per ogni velo stracciato ne posiamo
altri cento, siamo i soli capaci
di legare la notte e illesi trattare
col nulla fissando la sua nudità.

(I poeti a Orfeo)

Che dire? La letteratura, la poesia, la cultura non forniscono garanzie. Hanno, come scrive Nuccio Ordine, “la forza generatrice dell’inutile”. La forza del superfluo che non ha mercato. Pure, come ha sottolineato con forza Mario Vargas Llosa, se non ci fossero i poeti e i narratori non si avrebbe “quella capacità di uscire da se stessi e trasformarsi in un altro, modellati dall’argilla dei nostri sogni”.

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