“Mia madre” e le ferite dell’esistenza

Mia madreFallimenti esistenziali, crisi nei rapporti umani, egoismi e cecità, mentre le ferite del vivere irrompono sulla scena e non smettono di cambiare in profondità lo scenario interiore. Su tutto, l’impossibilità di guardare davvero gli altri, di riconoscerli e ascoltarli, in un contesto nel quale prevalgono l’inadeguatezza e l’incapacità di assumersi le proprie responsabilità. Il cinema di Nanni Moretti, e anche “Mia madre” lo conferma, è un viaggio nello “smarrimento del presente”, come il titolo del libro di Roberto De Gaetano (Luigi Pellegrini Editore, 2011), il quale individua in Moretti “l’autore italiano che più di altri ha saputo leggere il presente, percepirne gli smarrimenti, rappresentarne le fratture, ma soprattutto riconsegnarcene le maschere, private e pubbliche, che lo hanno attraversato e per molti versi composto”.

“Io non sono più in grado”, rivelava lo psicoanalista al suo paziente nella Stanza del figlio, prima che in “Habemus Papam” l’inadeguatezza assumesse una dimensione universale, in chiave politica, filosofica, spirituale, esistenziale. In concorso al 68esimo Festival di Cannes, “Mia madre”, il dodicesimo film di Moretti, continua questo viaggio interiore in un disagio che ha una valenza personale e collettiva al tempo stesso.

Se i primi titoli – da “Io sono un autarchico” (1976) a “Ecce bombo” (1978) e “Sogni d’oro” (1981) – hanno visto l’affermarsi di un personaggio originale, capace di incrociare elementi personali e pezzi di vita generazionali con un tocco ironico e amaro al tempo stesso, i successivi “Bianca” (1984) e “La messa è finita” (1985) hanno inserito la travolgente individualità di Moretti, regista e interprete, in una struttura narrativa più consolidata (grazie allo scambio con lo sceneggiatore Sandro Petraglia) e al servizio narrativo di due storie originali e profonde. Nuovi cambiamenti, nel linguaggio cinematografico, si sono verificati con “Palombella rossa” (1989) e, abbandonato il personaggio di Michele Apicella, con “Caro diario” (1993) e “Aprile” (1998), dove personale e politico, intimità e movimenti collettivi, comico e dramma si armonizzano con “morettiana” autenticità.

 In seguito, “La stanza del figlio” (2001), “Il caimano” (2006), “Habemus Papam” (2011) e adesso “Mia madre” si sono aperti al confronto con altri sceneggiatori (nell’ultimo film Francesco Piccolo e Valia Santella) per esprimere una nota intima legata a sentimenti di inadeguatezza e di fragilità interiore. Una nota interiore decisiva per raccontare lo smarrimento e lo sgomento di fronte a un mondo che non si riesce a comprendere fino in fondo e a governare.

Questa dimensione tragica del vivere trova in “Mia madre”, tra elementi autobiografici e universali, un momento cinematografico significativo e dotato di un’autenticità che colpisce al cuore. L’interpretazione di Margherita Buy (al suo terzo film consecutivo con Moretti),  nel ruolo della regista Margherita, incapace di dirigere ciò che sfugge a ogni controllo, in un parallelo convincente tra cinema e vita, aiuta ad esprimere, complici i tocchi delicati della macchina da presa, un sottile malessere e un sentimento di impotenza destinati a rimanere impressi.

Nel ruolo della madre condannata dalla malattia, Giulia Lazzarini è una interprete di rara finezza, mai sopra le righe, mentre Nanni Moretti (il fratello della protagonista, Giovanni, in una parte defilata rispetto alla centralità di Margherita ma fondamentale), John Turturro (nei panni dell’improbabile attore americano Barry Huggins) e gli altri attori (tutti significativi nel loro apporto a ogni tassello narrativo ed emozionale) partecipano con efficacia all’essenziale intensità della storia, in armonia con la fotografia di Arnaldo Catinari, il montaggio di Clelio Benevento e le musiche, impiegate con rara sensibilità. Come rileva Gianni Canova (http://welovecinema.it/bnl-presenta/mia-madre/mia-madre-la-colonna-sonora/), “Mia madre è anche un film sui mestieri del cinema. Ci sono tutti, e si vedono all’opera: non solo regista e attori ma anche costumista, truccatrice, segretaria di produzione, sceneggiatore, aiuto regista, produttore esecutivo, direttore della fotografia, e via dicendo. Manca solo il musicista, l’autore della colonna sonora. (…) Il fatto è che Mia madre è un film privo di brani originali composti appositamente: la colonna sonora, di fatto, è una compilation di brani già esistenti. L’unico altro film di Moretti costruito solo con brani di repertorio, e senza l’aiuto di un musicista/compositore come Franco Piersanti o Nicola Piovani, è Aprile. Ma non è un caso: qui come là il personaggio interpretato da Moretti porta il suo nome di battesimo (Giovanni) e mette in scena un’intensa e irripetibile esperienza autobiografica (rispettivamente la nascita del figlio e la morte della madre). Nella colonna sonora di Mia madre la parte esclusivamente strumentale è affidata o a un quartetto d’archi di Philip Glass o, soprattutto, alle musiche di Arvo Part, che è presente con ben otto brani (tra cui Cantus in memory di Benjamin  Britten e Tabula rasa), e che viene usato da Moretti con funzione di cerniera fra la realtà e i momenti di sogno, di incubo o di ricordo. C’è sempre la musica, ad esempio, quando Margherita sogna: è la musica che cuce il salto dalla dimensione realistica a quella onirica e che accompagna e rinsalda poi il ritorno alla dimensione della realtà”.

La musica, dunque, ha una funzione drammaturgica fondamentale, soprattutto sul piano emotivo, e quasi sempre originale, fatta eccezione per qualche scelta più prevedibile. Come osserva sempre Canova, l’impiego di canzoni come Famous Blue Raincoat di Leonard Cohen e Baby’s Coming Back di Javis Cocker appare intimamente collegato con il linguaggio delle immagini. Ciò avveniva, ad esempio, pure nel film “La stanza del figlio” con la canzone “By this River” di Brian Eno, centrale nella fase del lutto, vissuta dal protagonista, e della sua difficilissima elaborazione.

Nel coinvolgente finale di “Mia madre”, con un montaggio e un dialogo commoventi, domina uno sguardo dolorosamente autentico sui rapporti umani e sull’incapacità di capire davvero chi si ama. Il film non è un innovativo sul piano della grammatica cinematografica, e nella prima parte si percepisce qualche segnale di stanchezza (o è una stanchezza esistenziale, come quella che avvolge chi è attraversato dal lutto?), ma rimane dentro perché percorso da un sentimento profondo e rivelatorio.

Il regista riscrive una mappa della geografia interiore, con echi di Woody Allen (nell’ottima intervista di Elena Stancanelli,  http://www.minimaetmoralia.it/wp/elena-stancanelli-intervista-nanni-moretti/, Moretti cita “Un’altra donna”) e forse di Haneke (“Amour”, anche se non l’ha rivisto prima di girare). Un viaggio nella straziante banalità (ed essenzialità) del dolore e nella verità dei sentimenti, cominciato con “La stanza del figlio”.

Non mancano i momenti divertenti, le ironie e le situazioni “alla Moretti”, i passaggi dal set alla vita, le rielaborazioni tra il passato e la voce interiore della protagonista, in uno scenario a volte onirico e a volte realistico,  ma il sentimento dolente della solitudine, come quando la protagonista cammina da sola, in un ambiente cupo e notturno, prevale su tutto. Ẻ la solitudine dell’essere umano, nella sua essenza e nel suo egoismo. Cecità e chiusure che solo eventi epocali, come la morte di un genitore, possono mettere in discussione.

In programmazione nelle multisale Iris e Uci Cinemas e nel cineauditorium Fasola di Messina.

Marco Olivieri

Una parte di questo articolo è stata pubblicata dal settimanale Centonove del 23 aprile 2015, rubrica “Nuove Visioni”.


Immagine di copertina: una scena del film (Foto: ANSA/01 Distribution).

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