Scritture per il fine settimana: natàlia castaldi suggerisce alcuni inediti di natàlia castaldi

Alcuni brani da Paradigmi per una diversificazione della scrittura poetica: il ritmo e l’oggetto

1.

Vorrei che la parola fosse un corpo freddo | da osservare col distacco della morte, | un’estrema forma d’arte inchiodata al muro, | alla carta, | alla parete delle ossa; | scoprire nello sguardo di chi legge lo stesso cinismo che muove le dita, | quella furia fredda e calma, ossessiva e maniacale, di amare le cose fino a vederne la loro lenta distruzione. || Sarebbe tutto quello che resta, | la parola-reliquia delle ossessioni che l’hanno scomposta, | una morte fissa che sconfigge la vita nel suo finire. | L’ultimo possibile atto d’amore. ||


2.

L’attitudine a far perno su ogni particolare | che inceppi la lingua dove il dente duole | ha un non so che di amorale | come tutto ciò che fa dell’arte una pura fissazione. | Si è parlato di “distrazione” centrando l’oggetto dell’agire intorno alla parola che divide, frammenta e spezza la sequenza logica dell’azione. L’assioma del filologo dal centro parola si allarga a raggiera, comprende l’opera dal basso, come il tonfo di un sasso comprende l’inquietudine dell’acqua nella sua postura fintamente statica, che pure illude con apparente fermezza lo stato di attesa preesistente all’azione posta in arte, come tuffo en abîme che si rinnova in superficie con l’argomentazione di un diapason d’acqua.


3.

Non splende “aura” alcuna?

Non si potrà negare che la disconnessione aprioristica degli elementi dall’insieme non presuppone affatto una randomizzazione degli stessi in un aggregato a caso. Qualunque elemento si collochi nel divenire dell’intento logico del dire, ha sua dignità espressiva a prescindere dal contesto in cui si muove, ma al contempo inscindibile dalle correlazioni storico-letterarie e sociali in cui si muove l’autore. La negazione dell’interazione degli agenti esterni e interni all’arte stessa, si fa oggetto di indagine scientifica che viviseziona, ma non funziona.


4. Il Rumore delle Mani

Sin da bambini si impara misurando le distanze attraverso l’intensità dei rumori e l’alternanza di silenzi e suoni.

la profanazione di una casa vuota
si legge nel silenzio delle dita
quando registrano la pesantezza
del dono nel tonfo di un oggetto
mentre cade

I bambini non fanno che lanciare gli oggetti, buttandoli dal seggiolone per ascoltarne il rumore e imparare così la gravità del cadere. In tutto questo sperimentare-vivere-imparare, le mani e l’udito tornano a essere complici nella lettura e nella spiegazione del mondo, creando una sorta di secondo linguaggio.
Gli adulti invece si lanciano direttamente nel vuoto, senza la prudenza istintiva dei bambini.
Gli adulti usano le mani con la consapevolezza diretta di causa ed effetto e a volte uccidono con le mani, altre amano e dopo aver amato odiano o posseggono fino al delirio estremo della fine.
Creano anch’essi un secondo linguaggio ma, in questi casi, privo di comunicazione, sordo alla conseguenza del gesto e dell’azione, chiuso in un atto impositivo che nulla ha a che vedere col danno innocente dei bambini.
Anche il rumore delle mani adulte può essere delicato come una carezza, può modularsi in suono con la sapienza dell’esperienza di una vita, con la memoria dell’infanzia giocosa, nell’attesa di una vecchiaia di pacata saggezza. Eppure, nonostante tutta la conoscenza pregressa di secoli e storia, di scoperte e traguardi di arte e scienza, sempre più mani si mortificano nel sangue sacrificale di infanzie tradite, di madri e mogli sgozzate, di generazioni depredate dall’uso criminoso di mani che, giorno dopo giorno, si impossessano del futuro.

_______________________________________________________________

dove sarà la parola
rinchiusa in queste mura?
Una finestra è quanto appare
di ciò che non ci appartiene.

Eppure sarebbero bastati mille anni
per dirci delle cose senza vita

*

che poi, supponendo l’aurora sopra
i massi e questo confine oltre la ringhiera
uno scintillio come si scrivesse
il c i e l o nella la parola v i t a

saremmo forse più liberi
che nel silenzio di questo vuoto?

*

si dovrebbe sempre dire “è solo
una poesia” per darle il giusto
valore,
quell’importanza fondamentale
che non provvede a nulla e non risolve niente.

*

poi arrivano quelli e dicono che l’io
dovrebbe essere soppresso
allora ci provo, ne invento uno nuovo.
Soffro con lui e ancora sono
nelle ferite che tremano
ai piedi freddi

[me ne infischio delle soppressioni]
la libertà è una conquista / che sanguina piano.

*

(S o N o)

Un calcio alla letteratura diritto negli stinchi
un v a f f à n c ù l o / òh!
che alleggerisce il cielo


[la noia di scrivere

abbiamo avuto il nostro penoso
tramonto, la ruggine delle foglie,
la noia delle primavere quando
invadono l’inverno, i silenzi
___________________ della notte
e tutto qui per noi a sobillarci
la stoltezza di scrivere prolissità
nella pronunzia sorda del vento
impigliato ai denti aguzzi delle stelle
quando, lento]
rimastica le ottuse ipocondrie
___________________ del giorno
[Vedrai, anche questa funesta pagina
di male si scioglierà nei giardini
segreti degli istinti ove soggiacendo
oltre ogni logico volere
________________________ guariremo
nel libarci alla fonte dell’inganno
– Oh mia scure!
Famelica lama, abbatti il mio tronco
fino al battesimale incontro delle
vene al cuore ché non si ammetta il minimo
____________________________ _______ dubbio
riguardo alla rotondità della
_______  ___________ terra
ed al vagare risucchiati dal suo
___________________ ventre
di leggenda come mesta novella
sul divagare delle cose, quasi
fosse tutto puerile invenzione
_   _ ________  __  __ dell’arte,
come se un platonico sussulto
potesse rendere giustizia alla
_____________ __________ monotonia del verso]

______________ N o n s é n s o:
penuria di parole alla penna
________________ _______  digiuna d’argomenti

Senti la ruggine mangiare i corpi,
le lamiere, le giunture?
È anch’essa
n o i a _ nelle cose inanimate
mentre fuori tutto è fermo nel suo
_____________________________  ferruginoso aspetto
___________  [ –  almeno piovesse].


10# [se a scriverlo

Si entra nelle parole con l’equilibrio di un bambino
che di soppiatto infila passo dopo passo al silenzio
per non turbare il resto delle cose
e sembra quasi che io non esista
senza questa stanza gialla
– se la scrivo gialla perché tu la veda ]
e che sia il tuo comodino
– se lo scrivo per sfiorarti le dita ]
quando appoggi piano l’ultimo libro
_____________________________ e gli occhiali della sera.
Come non fossimo che materia uniforme di ogni lettura
fin dentro l’invenzione delle scale sotto il passo lento,
_______________________________________ e il lavandino,
che ancora non si sa se scriverlo vecchio o antico,
ma che ha il privilegio di raccogliere l’acqua dopo il tuo viso,

e le lenzuola da sentenziare decisamente bianche
per avvolgerti le ginocchia,
i talloni screpolati,
la schiena,
come questo foglio
su cui annoto la rituale
procedura del tuo sonno pari alla mia veglia.

[quasi io mi possa acquietare
solo dopo aver rimboccato ogni parola
al nostro essere luogo come una scrittura.]

*

[dovremmo fare in modo da aprire
questa bocca e infilarci dentro il senso
di una lingua nuova come una parola
scritta per dar luogo al non detto ancora
___________________ e
vivere così, tra le parentesi
quadre di un attimo di quiete
Non vedere oltre L’inizio e la fine
di ciò che sarebbe La distorta
prospettiva di un qualunque persempre.
Essere solo Una parola, fuori
____________________________ contesto.]


poesia è il punto d’incontro tra il dentro
e il fuori, il lembo ripiegato
di una pagina tra il prima e il dopo,
il margine impreciso in cui quello che sento
investe ciò che sono, la possibilità
di non essere quello che leggi
____________________  né ciò che scrivo.

_______________________________________________________________

alcune bozze da Il volto perfetto della morte.

I.

寂 sabi

La fortuna più grande che mi sia mai capitata si chiama “carcinoma”, più comunemente inteso come “cancro”, ma non userò più questi due termini perché, di solito, turbano la sensibilità di chi li legge, dunque chiamerò la mia fortuna “malattia”, “sofferenza”, “calvario”, “dolore”, in poche parole “rinascita” o anche, zambranianamente, “desnacimiento”.
Non si parla a caso di rinascita, come non parlerò a caso di travaglio. La sofferenza è principio primo di luce, ci accompagna alla luce, è fonte primaria della venuta al mondo:
nel primo pianto risiede tutta la gioia responsabile dell’affacciarsi alla vita.
Ed è così che ho vissuto questo ultimo anno di gestazione e travaglio, riformandomi e plasmandomi di giorno in giorno alle cose di ogni giorno, alla conquista della primordiale luce quotidiana, che l’ignoranza della morte offusca a chi non sa di avere giusto il tempo per dirsi vivo.

Mi sento un fiore,
sono un fiore che ogni giorno sboccia
e sboccia e sboccia, giorno dopo giorno
senza lungimiranza o desiderio
che valga un solo istante d’implosione
di profumo
di colore.

Non ho tempo perché non mi chiedo tempo, sono tempo nella misura in cui vivo il tempo, dunque mi vivo istante per istante, con la gioia che lacera l’intensità dell’unica certezza. E non c’è nulla di mistico in tutto questo, ma un’allegria tutta immanente, un gesto di pace che si raccoglie in tenerezza.

II.

侘 wabi

Pensiamo alla malattia come fosse qualcosa di estraneo ed esterno a noi: una minaccia, una iattura o, comunque, come qualcosa che mai dovrebbe intaccare l’ordine perfetto dell’abitudine del nostro vivere; ma la malattia non è altro che il vivere stesso, parentesi o direzione finale del viaggio, essa è anche occasione di luce e ridimensionamento delle cose nell’abisso della consapevolezza del nostro termine. C’è tanta beatitudine da scoprire nell’interazione delle cose e degli eventi con la parte più umana e fragile del nostro corpo e delle sue limitate funzioni animali. Scoprire la felicità irriducibile della sopravvivenza riporta a uno stadio di libertà ferale che, nell’immanente, riconosce lampi di numinosa trascendenza.

La sofferenza è un’esperienza da accogliere come occasione di salvezza.

III.

侘寂 (wabi-sabi)

La bellezza, ad esempio, è una schiavitù plastificata e omologata alla perfezione cellulare, quasi asettica, chimica, in vitro. La malattia, come la vecchiaia e il tempo, non fa che cancellare le impalcature di un edificio portante che si piega sotto il peso delle storie che ha raccolto, rannicchiandosi in una rassegnazione di pace e silenzio, che nulla rimpiange alla memoria di ogni suo fragoroso accadimento. La malattia, dunque dicevo, libera la parte portante del nostro edificio vitale, restituendone l’intelaiatura tramata in strati di lavorio e tempo; ridonando al volto la libertà dell’espressione, il corrucciarsi dei nervi e delle ossa, l’imbibirsi dei tessuti senza alcun potere di vergogna per la prova accurata che gli standard estetici del tempo imporrebbero loro. Non è più il fronzolo a reggere l’intera impalcatura, non il belletto, non il trucco di scena. È la malattia stessa a dire di noi, a raccontare la bellezza di un fascino antico, perduto, che in sé contiene qualcosa di malinconico e triste con la delicatezza di ogni nuovo sorriso.

È l’esserci di per sé a prendere il sopravvento, è la compiacenza verso se stessi a rendere morbidezza al cammino con la tenace ironia del guardarsi con l’occhio estraneo che non coglie difetto, ma tutta la bellezza in rovina che il fascino dei resti di un’intera civiltà conserva.


[l’imperfetta meraviglia dell’imitazione della bellezza – come letture tra le dita

è un cacciatore di immagini
colui che sorseggiando stelle
rinchiude la bellezza in piccole teche
come scatole per piccole storie
da cui attingere per raccontare
[ con quella precisione macabramente erotica
dell’arte del collezionare]

( ” ) – ché poi si cerca il nesso
tra le teche di Simić
e la religione del cuore di Ḗluard
fin dentro la solitudine rumorosa
di un tenero Hrabal
ed è come entrare in un altro bosco
con altre querce
____________ alte]
come vedette
che filtrano tra le dita intrecciate
fitte]
il buio sotto la luce
perché s’intuisca ciò che ci era noto
nell’attimo prima dell’ombra
tra le movenze longilinee del pensiero

[la statica meraviglia di un punto che aspira alla perfezione
è l’infinita aporia tra percezione e reale
da sussurrare piano prima che ci si accorga
che l’imitazione è un’altra storia da inventare]


due brani da Scatole per piccole storie

#2

Universalità di scarto – a J. Cornell

Dai seni al ventre smembrava e ricomponeva la mappa astrale di una curva universale impossibile da possedere. Gli era sufficiente raccattare ritagli di cose inutili, scarti di roba che ogni comune mortale si affannerebbe ad accumulare per poi liberarsene alla svelta, con la precisa idea di restituire la potenza creativa intrinseca e innatamente indefinita di ogni cosa ad ogni cosa.

Ci sarà sempre qualcuno pronto a definire tutto questo arte, e qualcun altro avvezzo a storcere il naso per l’inutile spreco di tempo e spazio in contenitori di merda, cosiddetta d’artista. Eppure, qualunque sia il punto di partenza e arrivo, ciò che sorprende, affascina e costringe a soffermarsi sul più stupido interrogativo umano sul concetto di arte e bello innegabilmente sindacabile, è che qualunque cosa si pensi, qualunque formazione del gusto si possa avere, qualunque conoscenza della mappatura dell’Universo si possa possedere, ciò che rende magico il suo fanatico mondo da maniacale accattone-collezionista, è la delicatezza con cui solo lui sembra essere riuscito a ricucire i tasselli dell’infinitamente inutile dandogli forma, luogo, senso e vita al di sopra del tempo, e tutto senza parole, calcoli quantistici, o conoscenze profonde di scientifica e comprovata natura, laddove il più dotato dei mortali avrebbe fallito.

Già! perché nel caso di Cornell, doveva trattarsi di un vero e proprio atto di creazione, la preconcettuale, geniale idea-eiaculazione di un orgasmo che si andava sovrapponendo alle singole cose accoppiandole, appaiandole, facendole essere e venire insieme: un po’ come il corretto abbinamento di due improbabili calzini monocolore che ti risolvono la giornata, o l’inutile meraviglia di due stelle per capezzoli tra indefiniti cieli in costruzione.


#4 the lake

Il lago aveva una nitidezza particolare. Sarà che dopo la pioggia tutto assume una trasparenza consistente, quasi palpabile nel decifrare specularmente la natura morfologica del suo riflettere, ma la sensazione che dal lago oggi si diramava tra le cose, gli oggetti, i visi, le botteghe dei pescatori, il negozio del pane, era che ogni cosa fosse lì per assolvere alla solenne restituzione di smussare angolature e perimetri per cogliere l’esatta distorsione tra ciò che appare e quanto potrebbe realmente, o idealmente, essere.
Oggi il lago era la mimesi di ogni plausibile realtà nella liturgia del suo silenzio.

***

agosto 2012Natàlia Castaldi nasce a Messina il 13 gennaio 1971, dopo una formazione classica si iscrive dapprima alla facoltà di Lettere classiche della sua città, per poi continuare il suo percorso di studi tra Milano e Roma dove frequenta il corso di Laurea e specializzazione in Interpretariato e Traduzione, conseguendo nel 1997 la specializzazione in Traduzione di lingua inglese e spagnola. Dopo anni di viaggi per studio e lavoro tra Italia e Inghilterra, dal 2000 è tornata a vivere nella sua città natale. La poesia, la fotografia e la partecipazione attiva alla vita politica e civile, sono i suoi principali campi di interesse, che considera dipendenti e consequenziali gli uni dagli altri.
Scrive poesie, saggi, recensioni, brevi brani in prosa, e nell’ottobre del 2009 fonda il Collettivo dei Meltin’po(e)t_s e il litblog Poetarum Silva, che abbandona definitivamente nel 2013 in seguito a un lungo periodo di malattia.
Alla fine del 2013 incontra Gianluca D’Andrea col quale ritrova lo slancio e la voglia di creare un nuovo movimento di riscoperta e sperimentazione poetica, che si concretizzerà con la nascita dapprima de La Nuova Scuola Messinese e successivamente, grazie alla condivisione di intenti con i poeti Gianluca D’Andrea, Diego Conticello ed Enrico De Lea, alla fondazione dell’Associazione Culturale Carteggi Letterari e dell’omonima Rivista online.

Pubblicazioni:

    • 2009 – Partecipa alla Biennale di Venezia con la composizione in versi “In Alta Armonia”, ispirata e dedicata a Eluana Englaro, e musicata dal Maestro Marino Baldissera per soprano, flauto, clarinetto, chitarra, arpa e live electronics.
    • Il giardino dei poeti – antologia di poeti italiani – Historica – Il Foglio Letterario, novembre 2008
    • Pro/Testo – Versi – antologia – Fara Editore, giugno 2009
    • Poetarum Silva – Antologia A.A.V.V. – a cura di Enzo Campi – Samiszdat edizioni, Parma – maggio 2010
    • Nota introduttiva al poemetto “Ipotesi Corpo” di Enzo Campi – Edizioni Smasher, Messina – giugno 2010
    • Prefazione alla silloge poetica “Diecidita” di Jacopo Ninni, Edizioni Smasher, aprile 2011
    • Dialoghi con nessuno – Edizioni Smasher, Messina – maggio 2011
    • Innenansichten – Un e-book a Berlino, antologia italo-tedesca di poeti italiani contemporanei pubblicati e tradotti in tedesco per la Casa ed. Lettrétage in collaborazione con l’Istituto Italiano per la Cultura di Berlino (e-book scaricabile cliccando QUI)
    • principali poeti tradotti: Pedro Salinas, Ana Rossetti, Elizabeth Barrett Browning, Charles Simic, Mark Strand, Carol Ann Duffy … (traduzioni rintracciabili in rete su vari siti di poesia, tra i quali “Imperfetta Ellisse”, a cura di Giacomo Cerrai)

Suoi lavori sono stati pubblicati da diversi siti e blog di poesia, tra i quali: La dimora del tempo sospeso– a cura di Francesco Marotta; Nazione Indiana – a cura di Marco Rovelli; La poesia e lo spirito – a cura di Fabrizio Centofanti e Francesco Sasso; Oboe Sommerso – a cura di Roberto Ceccarini; Arte Insieme – a cura di Renzo Montagnoli; Il giardino dei poeti – a cura di Cristina Bove; Imperfetta Ellisse a cura di Giacomo Cerrai; Stroboscopio – a cura di Luigi Bosco.

16 pensieri su “Scritture per il fine settimana: natàlia castaldi suggerisce alcuni inediti di natàlia castaldi

  1. Una visione vasta, che afferra i punti sparsi nei testi di Natalia creandone una mappa d’orientamento tra i flutti del pensiero poematico, freatico, magmatico. Una ricognizione che incuriosisce ma non esaurisce, bensì invita a proseguire.

  2. Mi piacerebbe commentare a lungo, ma nemmeno io ne sarò capace. Dunque butto alcuni pensieri alla rinfusa, non per fretta – non si può averne davanti a questi scritti – ma per stupore.

    Ho sempre apprezzato Natàlia, come persona e come scrittrice. Le sue visioni, i suoi scarti, il suo essere del tutto dentro alla vita anche nella scrittura. Questi brani, diversi fra loro, portano però una luce nuova, più matura, più sofferta e contemporaneamente più profondamente entusiasta sull’esistenza. Non è stata persa l’indignazione, non è stato perso quel modo di procedere del pensiero così imprevedibile e a volte inesatto da rappresentarne la ricchezza e la particolarità illuminante. Ma c’è, o almeno percepisco, una consapevolezza nuova anche nell’affrontare temi che di colito non abbiamo il coraggio di raccontare, come la morte. Chi la ha vista da vicino invece può farlo con le parole più vere, ecco, rinunciando forse alla rabbia diretta perchè spesso la vita stessa è già di per sè rabbia e ingiustizia. Ed al tempo stesso sa cogliere le pagine “giuste”, sforzarsi di coltivarle sapendo quanto sono preziose.

    Questo commento confuso per dire che qui ci sono brani meravigliosi; e che spero che i titoli che annunci siano sono il preludio a qualcosa che presto verrà pubblicato nella sua completezza, su carta perché così potremo portarlo con noi, in tasca, nella giacca.

    Grazie.
    Francesco

    1. Francesco, grazie di cuore. Non so se prenderanno vita propria su carta queste raccolte, per ora scrivo con molta calma senza pormi altri obiettivi; ma certamente se mai mi deciderò tu sarai il primo a saperlo. ti abbraccio

  3. si dovrebbe sempre dire “è solo
    una poesia” per darle il giusto
    valore,
    quell’importanza fondamentale
    che non provvede a nulla e non risolve niente.

    si dovrebbe sempre dire.

    grazie, Nat, con l’accento sulla prima a.
    G*

  4. Mi è preso un groppo alla gola nel leggere questi testi, Natàlia. Non per le parole “carcinoma”, “cancro”, “morte”, “malattia” e altre che chiunque nella vita vorrebbe non dover mai pronunciare, ma per la grandezza della tua anima antica, per il silenzio che si fa dentro nell’ascoltarti, per il bagliore della tua via che, da mistica, hai scelto di percorrere. Per l’esempio che sei per chiunque abbia la fortuna di incontrarti nel proprio percorso. Come altri hanno detto, commentare è difficile, se non col silenzio grato dell’abbracciarti. Ti voglio bene anima coraggiosa e Maestra.

    1. Cara Francesca, ti ringrazio di cuore. La stima che nutro per te è la misura della gioia per le tue amorevoli considerazioni sul mio lavoro.
      un caro abbraccio.
      nat