“Birdman” e le ferite degli attori

Fresco vincitore di quattro premi Oscar (come miglior film, regia, sceneggiatura originale e fotografia), “Birdman (o l’imprevedibile virtù dell’ignoranza)” è un film complesso e ricco di sfaccettature. Il regista Alejandro González Iñárritu (“Biutiful”, “Babel”, “21 grammi – Il peso dell’anima”) firma un’opera vitale sul piano stilistico e che presenta più chiavi di lettura, sorretta da un’ottima sceneggiatura (scritta dallo stesso Iñárritu con Alexander Dinelaris, Armando Bo e Nicolas Giacobone) e soprattutto dalla qualità del linguaggio filmico, con interessanti piani sequenza e tagli accattivanti, oltre all’efficace fotografia di Emmanuel Lubezki.

In primo piano un linguaggio visivo in funzione del racconto doloroso di una vita tragicamente imperfetta, quella dell’ex divo di un blockbuster (Riggan Thomson, interpretato da Michael Keaton), delle sue ferite interiori e delle sue viltà private, in equibrio tra verità esistenziale, messa in scena teatrale (la pièce tratta dal racconto “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore” di Raymond Carver), industria cinematografica, critica letteraria, mondo dei social network e intima irriducibilità di ogni individuo rispetto agli imperativi sociali, soprattutto al diktat di dover corrispondere a maschere statiche e preconfezionate. In particolare, il film esalta le sfumature e i confini nella dialettica tra persona e attore, con precisi riferimenti cinematografici (su tutti Robert Altman) e letterari, alternando in modo coinvolgente più piani: dal realismo all’elemento fantastico, quest’ultimo sostenuto da una tendenza al paradosso e al grottesco, con un’ironia e un retrogusto amaro che caratterizzano il continuo confronto fra palcoscenico e grande schermo.

In questo ambito, “Birdman” trova negli interpreti – gli ottimi Keaton, Edward Norton, Emma Stone, Naomi Watts, Andrea Riseborough, Zach Galifianakis, Amy Ryan – gli elementi fondamentali per raccontare l’altra faccia della luna, quella più dolorosa e vera, rispetto alle illusioni dello star system. Un intreccio di vite senza happy hand, con un occhio allo sberleffo, nel segno di una macchina da presa che lambisce l’assurdità del vivere.

Marco Olivieri

 

Dal settimanale “Centonove” del 19 febbraio 2015 con un aggiornamento post Oscar.

 

 

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