Il volto perfetto della morte

la necessità è un volo basso
 un passo laterale appena rasente
 la superficie malata delle cose
 come sono, loro
 e io.
[ogni addio necessita un taglio netto
 un’incisione acuta
 la traduzione di uno stato d’ansia
 che s’arrota le lame in silenzio]

Prepararsi alla fine è un atto di misericordia terrena.

I.

Pensiamo alla malattia come fosse qualcosa di estraneo ed esterno a noi: una minaccia, una iattura o, comunque, come qualcosa che mai dovrebbe intaccare l’ordine perfetto dell’abitudine del nostro vivere; ma la malattia non è altro che il vivere stesso, parentesi o direzione finale del viaggio, essa è anche occasione di luce e ridimensionamento delle cose nell’abisso della consapevolezza del nostro termine. C’è tanta beatitudine da scoprire nell’interazione delle cose e degli eventi con la parte più umana e fragile del nostro corpo e delle sue limitate funzioni animali. Scoprire la felicità irriducibile della sopravvivenza riporta a uno stadio di libertà ferale che, nell’immanente, riconosce lampi di numinosa trascendenza. La sofferenza è un’esperienza da accogliere come occasione di umana salvezza.

II.

La bellezza, ad esempio, è una schiavitù plastificata e omologata alla perfezione cellulare, quasi asettica, chimica, in vitro. La malattia, come la vecchiaia e il tempo, non fa che cancellare le impalcature di un edificio portante che si piega sotto il peso delle storie che ha raccolto, rannicchiandosi in una rassegnazione di pace e silenzio, che nulla rimpiange alla memoria di ogni suo fragoroso accadimento. La malattia, dunque dicevo, libera la parte portante del nostro edificio vitale, restituendone l’intelaiatura tramata in strati di lavorio e tempo; ridonando al volto la libertà dell’espressione, il corrucciarsi dei nervi e delle ossa, l’imbibirsi dei tessuti senza alcun potere di vergogna per la prova accurata che gli standard estetici del tempo imporrebbero loro. Non è più il fronzolo a reggere l’intera impalcatura, non il belletto, non il trucco di scena. È la malattia stessa a dire di noi, a raccontare la bellezza di un fascino antico, perduto, che in sé contiene qualcosa di malinconico e triste con la delicatezza di ogni nuovo sorriso.

III.

La malattia, come la vecchiaia e il tempo, non fa che cancellare le impalcature di un edificio portante che si piega sotto il peso delle storie che ha raccolto, rannicchiandosi in una rassegnazione di pace e silenzio, che nulla rimpiange alla memoria di ogni suo fragoroso accadimento. La malattia, dunque dicevo, libera la parte portante del nostro edificio vitale, restituendone l’intelaiatura tramata in strati di lavorio e tempo; ridonando al volto la libertà dell’espressione, il corrucciarsi dei nervi e delle ossa, l’imbibirsi dei tessuti senza alcun potere di vergogna per la prova accurata che gli standard estetici del tempo imporrebbero loro. Non è più il fronzolo a reggere l’intera impalcatura, non il belletto, non il trucco di scena. È la malattia stessa a dire di noi, a raccontare la bellezza di un fascino antico, perduto, che in sé contiene qualcosa di malinconico e triste con la delicatezza di ogni nuovo sorriso.

È l’esserci di per sé a prendere il sopravvento, è la compiacenza verso se stessi a rendere morbidezza al cammino con la tenace ironia del guardarsi con l’occhio estraneo che non coglie difetto, ma tutta la bellezza in rovina che il fascino dei resti di un’intera civiltà conserva.

[…]

natàlia castaldi

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