Intervista a Paolini

Non gli piacciono le etichette e così anche quella di teatro civile gli sta stretta. Questo nuovo lavoro di Marco Paolini, uno dei massimi rappresentanti del teatro di narrazione (ricordiamo solo l’acclamatissimo monologo sul disastro del Vajont), rappresenta una continuazione rispetto al resto della produzione o segna un distacco? Basato su tre racconti di Jack London con uomini e cani come protagonisti, sullo sfondo della corsa all’oro di fine Ottocento, il monologo-canzoniere, con musiche composte ed eseguite da Lorenzo Monguzzi, è un tributo ad un autore per certi versi visionario.

Il titolo, Ballata di uomini e cani, mi fa venire in mente Uomini e topi di Steinbeck; le torna?
Il mondo descritto da Steinbeck è quello della grande depressione degli anni Trenta. Gli uomini e cani di Jack London in fondo sono gli antesignani, quelli della generazione precedente. Quello che narra London nasce dalla crisi economica di fine Ottocento, che sposta masse di diseredati sui treni. Ecco, quelli, se vogliamo, sono i papà dei personaggi di Steinbeck.

Citavo questo accostamento perché molti critici e spettatori, relazionandosi al suo ultimo lavoro, hanno parlato di distacco dal teatro civile. Mi chiedo: è proprio vero?
A essere onesti io stesso ci tengo a marcare un distacco. È vero che siamo ancora lì, ma a me non piace l’etichetta di “attore civile”, non amo che si sovraccarichino di significati le cose che faccio. London è sicuramente uno scrittore politico, ma giudicarlo sulla base di un’ideologia non gli rende un gran servizio, perché sostanzialmente è un grande narratore, fra le altre cose ricco di contraddizioni. Credo che un’opera, se è abbastanza forte, debba stare in piedi indipendentemente dalle etichette; non deve esserci, insomma, una ragione che la giustifichi.

Qual è il rapporto che si viene a creare fra uomini e cani? Che cosa hanno da imparare gli uomini dai cani?
Se c’è una cosa che detesto sono gli animalisti. Alcuni spettatori mi hanno scritto arrabbiati dopo aver visto questo spettacolo, accusandomi di crudeltà verso gli animali, perché London racconta alcune cose che disturbano e l’irritazione viene inspiegabilmente dirottata su di me. Più arrivano queste cose, più io non ho nessuna voglia di spiegare. In un mondo così analfabeta e irrigidito che non è in grado di distinguere fra autore e personaggio, fra storia e contenuto, non voglio avere nessuna funzione segnaletica per indicare alla gente che cosa è bene e che cosa è male. Accidenti, se tocca agli attori fare questo vuol dire che dietro non c’è stata la scuola, e nemmeno la famiglia. Si è arrivati ad una tale situazione di imbarbarimento che le manifestazioni sociali come il teatro diventano il sostituto di tutta una serie di cose che non esistono più.

In London, come in molta letteratura americana, emerge un senso della natura molto forte, per certi versi dirompente.
Stiamo parlando di Ottocento, quindi di un mondo in cui il darwinismo è una specie di dogma. London, con la sua descrizione degli animali, diede scandalo. Il suo immaginario era percepito come irritante e per questo oggetto di scherno. Noi oggi non ci rendiamo conto di tutto questo, siamo incantati dalla bellezza di “Zanna bianca” e dal richiamo della foresta, tolleriamo senza problemi il gioco delle parti in cui gli animali ragionano, provano i sentimenti come l’odio e l’amore; ebbene, all’epoca tutto questo era blasfemo e provocava reazioni che non mi sembrano distare molto da quelle che negli islamici hanno provocato le vignette dello Charlie Hebdo. Qualcuno l’avrebbe fatto a pezzi volentieri per le cose che scriveva; c’erano polemiche virulente sui quotidiani dell’epoca. Le sue visioni del mondo, in un momento in cui la scienza era diventata più potente della religione, sono estremamente trasgressive. Quello che abbiamo scoperto oggigiorno sull’intelligenza animale attesta la sua capacità visionaria, ma non si tratta tanto di una rivincita: ciò che caratterizza un’opera d’arte è la capacità di trascendere il realismo, ma non allo scopo di costruire mondi di mera evasione, ma per dilatare i limiti dell’immaginazione, cosa che permette di dilatare anche quelli della comprensione. Da questo punto di vista la natura descritta da London dialogano non solo con la visione del suo tempo, ma con la nostra.

Nello spettacolo è presente anche la biografia di London?
C’era, ma ora è stata ridotta all’osso, non c’è quasi più niente, per questione di asciuttezza. Mi sono reso conto che stavo facendo l’enciclopedia di London e che era troppo. Anche se uno spettacolo sulla sua vita sarebbe assolutamente utile.

Magari in futuro?
Non credo che il prossimo lavoro sarà ancora su questo argomento. Devo voltar pagina. Se fra cento anni sarò ancora vivo, perché no?