Abu Ghraib e la banalità del male

In posa

“Un documento della nostra ordinaria e banale brutalità (estetica) come indice fondamentale della guerra contemporanea combattuta in nome dei valori democratici”. Per il docente di Filosofia (Università di Messina) Pierandrea Amato, autore del libro “In posa. Abu Ghraib 10 anni dopo” (Cronopio 2014, 74 pagine, 8 euro), le istantanee del carcere irakeno, con i torturatori statunitensi in posa fotografica al fianco dei torturati, giungono “oggi alla piena decifrazione esibendo, secondo un’idea di Walter Benjamin, ciò che ci permette di riconoscerle per quello che esse realmente sono”.

L’agile volume colpisce sin dalla scelta dei titoli dei capitoli: Soglia, Inquadratura, Scena, Immagine, Fuori Fuoco, con un’introduzione dal titolo “Sequenze dalla fine di un mondo”, che rivelano un legame semantico con il cinema e il suo linguaggio. Sin dalla meticolosa descrizione di ciò che ha visto, l’autore rileva che «la fotografia e la guerra condividono una tendenza fondamentale: aboliscono il tempo, concepiscono una relazione essenziale con la morte». Dalla scrittura secca di Amato deriva una riflessione coinvolgente e aperta a nuovi stimoli, dove l’uso della fotografia digitale, con questi selfie ante litteram, assume centralità nel segno del “sapore rancido della reiterazione” e in una combinazione efficace “tra il mostruoso e la routine, fino a non distinguere più essere ed esistenza”. Emerge la forza disturbante di questi scatti amatoriali, inquietanti ed epocali nella loro anonima bruttezza. Un’archeologia dell’orrore scandita da un pensiero, quello di Pierandrea Amato, che ci costringe a riflettere senza edulcorazioni sull’oggi, sull’Occidente e le sue torture quotidiane, a partire da quelle immagini, quelle fotografie, con i torturatori che sorridono accanto ai prigionieri o li tengono al guinzaglio come cani.

Secondo l’autore, solo ora può affiorare, può emergere ciò che si celava nelle immagini, ciò che non siamo riusciti a vedere immediatamente, come «traccia preziosa per definire la natura della catastrofe che abitualmente abitiamo. (…) lo smarrimento di una misura comune, mondiale, per evadere dalla tessitura esclusivamente privata delle nostre esistenze”. Tutto questo “nasce dall’incapacità di concepire un’ipotesi efficace e senza precedenti in grado di trasformare un universo in cui chi non ha, se resiste contro chi ha tutto, è considerato un ingrato, un clandestino. Abu Ghraib è l’immagine riflessa di questa miseria. Gli scatti di Abu Ghraib, allora, non testimoniano soltanto un disastro militare e culturale collocato alle nostre spalle, ma ritraggono e condensano l’immagine e il presente della (nostra) catastrofe”. Inoltre, dato che l’autore ricorda l’insegnamento di Michel Foucault – “per decifrare la vera natura di un potere è necessario appurare in quale maniera si applica concretamente sui corpi” – viene in mente la lezione di Stanley Kubrick nel film “Full Metal Jacket”. Una lezione di demitizzazione, con in primo piano la volontà di spogliare di ogni retorica rappresentativa il racconto per immagini della guerra. Domina in Kubrick la volontà di ritornare all’essenza, alla natura umana, e il racconto cinematografico, prima ancora di quello del Vietnam, della preparazione militare alla violenza risulta ancora più profondo perché svuotato di ogni retorica. Ecco che emerge l’impossibilità di rappresentare in maniera diretta, evidente, quasi pornografica, ciò che veramente destabilizza e annienta interiormente, come l’orrore in guerra e la tortura, se ciò non è accompagnato, come avviene nel grande cinema, da una forza evocativa, simbolica e profonda, insita nelle immagini scelte dal regista.

Le fotografie analizzate nel libro di Amato, invece, mancano di questa dimensione artistica e diventano simboliche perché paradigmatiche di un disastro di civiltà. Fotografie analizzate nella loro indifferenza etica e che, prendendo spunto da Benjamin, “esprimono una figura iperbolica di normalità in grado di testimoniare che anche le forme di violenza più inaudite, nella civiltà dell’ipertrofia dell’immagine, diventano spettacolari; cioè anonime”, mettendo in luce “le condotte di vita in nome delle quali la democrazia occidentale va alla guerra”.

Nel complesso, le immagini di Abu Ghraib ci interrogano nel profondo, e in chiave individuale, come esponenti di questo “Occidente democratico”. Ci costringono a confrontarci con il nostro inconscio, con il nostro interlocutore segreto, come osserverebbe lo psicoanalista Pierre Kaufmann. Allora, imparare a guardare, a vedere queste fotografie potrebbe essere il pretesto per soffermarci sulla percezione di noi stessi. Il tutto grazie a fotografie perturbanti e banali che si impongono al nostro sguardo. Immagini che continuano a interpellarci come esseri umani, lontano dalla retorica di “noi, buoni e democratici”, collocati dalla parte giusta del mondo.

Marco Olivieri

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L’articolo è stato pubblicato sul settimanale “Centonove” dell’11 dicembre 2014. Il libro è stato presentato, su iniziativa dell’associazione “MigraLab A. Sayad”, lo scorso 3 dicembre alla Libreria Colapesce di Messina.

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