Mark Strand (1934-2014) – La metafisica dell’assenza.

Moon,  Mark Strand

Open the book of evening to the page
where the moon, always the moon appears

between two clouds, moving so slowly that hours
will seem to have passed before you reach the next page

where the moon, now brighter, lowers a path
to lead you away from what you have known

into those places where what you had wished for happens,
its lone syllable like a sentence poised

at the edge of sense, waiting for you to say its name
once more as you lift your eyes from the page

close the book, still feeling what it was like
to dwell in that light, that sudden paradise of sound.

*

Luna
Apri il libro della sera alla pagina
in cui la luna, sempre la luna, ancora appare
lì tra due nuvole, muovendosi piano, così piano che sembrerà
siano trascorse ore prima che possa voltare alla pagina seguente
lì dove la luna, più luminosa ora, fa approdare un sentiero
che ti conduca via da ciò che hai appreso
dentro i luoghi in cui tutto quello che avevi sperato si avvera,
la sua sillaba solitaria come un bisbiglio penzoloni
al margine del senso, ad aspettare che sia tu a pronunziarne il nome
ancora una volta staccando lo sguardo dalla pagina
chiudendo il libro, ancora sentendolo così com’era
quel sospendersi nella sua luce, quell’inatteso paradiso del suono.

*

Eating Poetry, Mark Strand

Ink runs from the corners of my mouth.
There is no happiness like mine.
I have been eating poetry.

The librarian does not believe what she sees.

Her eyes are sad
and she walks with her hands in her dress.

The poems are gone.
The light is dim.
The dogs are on the basement stairs and coming up.

Their eyeballs roll,
their blond legs burn like brush.
The poor librarian begins to stamp her feet and weep.

She does not understand.
When I get on my knees and lick her hand,
she screams.

I am a new man.
I snarl at her and bark.
I romp with joy in the bookish dark.

*

Mangiare poesia
Cola inchiostro dagli angoli della mia bocca.
Non c’è felicità pari alla mia.
Ho mangiato poesia.
La bibliotecaria non crede ai suoi occhi.
Ha gli occhi tristi
e cammina con le mani chiuse nel vestito.
Le poesie sono scomparse.
La luce è fioca.
I cani sono sulle scale dello scantinato, stanno salendo.
Gli occhi ruotano le orbite,
le zampe chiare bruciano come stoppia.
La povera bibliotecaria comincia a battere i piedi e a piangere.
Non capisce.
Quando mi inginocchio e le lecco la mano,
urla.
Sono un uomo nuovo.
Le ringhio, abbaio.
Scodinzolo di gioia nel buio libresco.
*
Trad. nc. – anno 2009

 

Mark Strand e la metafisica dell’assenza

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Mark Strand nasce nel 1934 a Summerside, nella Prince Edward Island in Canada, ma cresce negli Stati Uniti e vivrà prevalentemente a New York. Il suo modo di fare poesia abbatte regole e catene della tradizione lirica fondendosi alla prosa senza perdere altresì il piacere della pausa, del capoverso, del respiro, del ritmo intrinseco alla narrazione stessa. La poetica di Strand penetra il pensiero fino a metterne in luce tutti gli aspetti – reconditi, psicologici, inconsci – di sogno e realtà, sì da generare un effetto psichedelico di luci ed ombre, di echi e reminiscenze infantili mescolate al susseguirsi di azioni quotidiane. Strand sembra condurci attraverso la lettura dei suoi testi, in un un tunnel incantato e pauroso al contempo, in cui la tensione emotiva e la razionalizzazione dell’esperienza si fanno meditazione attenta su verità, fantasia e dato sensibile da ricucire via via all’oggettività del vissuto, fino a giungere alla rivelazione di risposte intrinseche e non sempre esplicite, alle annose questioni dell’esistenza. I suoi versi assumono via via forme sempre nuove, talvolta svelandone la veridicità nell’elencazione di una serie frammentata e consequenziale di “pensierini” apparentemente semplici e cristallini, che alla fine dell’intera lettura lasciano un senso attonito di scoperta, come se in tutta quella semplicità complilativa stesse intrinsecamente scritta la più semplice delle risposte da accettare semplicemente come vita.
Della semplicità si può fare arte complessa, quasi irraggiungibile: la perfezione della linea retta che si ricurva inseguendo dolcemente il suo percorso per poi puntualmente tornare diritta al punto di partenza. E’ una poetica maieutica, basata sulla tecnica del dialogo interrogativo, in cui il poeta risponde a se stesso scrutandosi e interrogandosi sempre sull’idea delle cose come oggetti del reale, quindi dato di fatto razionalmente inconfutabile, sebbene chiaramente inficiato da quanto di più umano ed emotivo possa stravolgerne l’oggettiva interpretazione a seconda della messa fuoco e del gioco prospettico che ne deriva. Ne risultano risposte a volte apparentemente spezzate che racchiudono in sé il senso di un pensiero vasto e profondo che sembra non raggiungere mai se stesso, fino a divenire nuovo interrogativo, nuova ricerca, nuova meditazione, altra/alta poesia. Mentre ne emerge sempre chiaro il senso dell’assenza come presenza piena, quasi metafisica, che affligge malinconicamente la descrizione della quotidianità nei giorni uguali e ripetitivi che riemergono dalla memoria del tempo, pieni di immagini potenti ed evocative che non sembrano appesantirne l’oggettiva fluidità.

“fissare il nulla è imparare a memoria
quello in cui noi tutti verremo spazzati”

Un’attesa graffiante della morte, descritta con la nudità e la crudezza dell’esorcizzazione di chi la fissa dritta negli occhi con atteggiamento coraggioso e disilluso, aspettando senza fretta, pavidamente la propria fine. Di sé Strand diceva

di raccontare sempre la stessa «vecchia storia», quella «sui minuti che muoiono e le ore, e gli anni», la storia «di me stesso, di te, di tutti».

E con questa storia e questo meraviglioso sguardo di coraggio e saggezza, noi ti salutiamo e ringraziamo, Mark, per averci indicato un modo, il tuo, per affrontare l’infinito viaggio nel silenzio della pace.

r.i.p.

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