Vicente Aleixandre: Poesie della consumazione

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Vicente Aleixandre

Ma se il dolore di vivere come spume scambiabili
poggia sull’esperienza di morire ogni giorno,
non basta una parola a onorarne il ricordo,
perché la morte in lampi come luce ci assedia.

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La prima produzione poetica di Vicente Aleixandre si inquadra in quel processo di rinnovamento operato da alcuni tra i più noti poeti spagnoli della prima metà del Novecento [Machado, Jiménez, Guillén, Diego, Alonso, e i più noti Cernuda, Salinas, Lorca e Alberti] che la critica spagnola sin dagli albori raggruppò per un giudizio di contiguità generazionale, sotto la denominazione di Generazione del 27; Generazione che partendo dall’esempio di Góngora,  pose l’accento per la de-costruzione del passato e la creazione di una lirica nuova nel rifiuto di una poesia lirico declamatoria e naturalistica, attingendo invece a piene mani dalla  tradizione popolare, da cui riteneva di poter trarre più originale e intima fonte di ispirazione.

Vicente Aleixandre, nato a Siviglia nel 1898 e morto a Madrid nel 1984, nel corso della sua lunga e travagliata vita, fu membro singolare e nello stesso tempo determinante per la produzione poetica dell’intera Generazione del 27, e ancor più determinante per la successiva generazione di poeti che si sarebbe andata formando. Ciò fu dovuto principalmente alle sue sempre precarie condizioni di salute che, impedendogli di scegliere la via dell’esilio, fecero sì che la sua opera e la sua influenza continuassero a vivere “da dentro” le vicende della guerra civile, abbracciando la causa repubblicana e patendo la successiva messa al bando della sua opera nel triste periodo franchista, rendendosi così punto di riferimento costante e presente “sul campo” per i poeti più giovani.

È tuttavia fondamentale mettere in luce, per la comprensione del rinnovamento della poetica di Aleixandre e dell’intera Generazione del 27, caratterizzata come già detto dal binomio dialettico tradizione-innovazione, l’influenza esercitata su questo gruppo di autori dalla produzione del nicaraguegno Ruben Dario, che possiamo a pieno titolo considerare come il primo vero “teorico” del modernismo ispano-americano che, partendo dal rifiuto dell’ultimo peggiore romanticismo, fissava le premesse per un rinnovamento delle lettere nella fusione delle suggestioni del parnassianesimo e del simbolismo con il gusto della tradizione popolare.

La prima pubblicazione di Aleixandre, Ámbito (1928), cammina di pari passo e può essere affiancata dal punto di vista tematico al Cántico che Guillén pubblicò nello stesso anno, dacché le tematiche di entrambi esaltano la gioia del vivere e il piacere del senso con tutte le implicazioni di allegria e soddisfazione cui l’uomo, per sua natura, aspira. Tuttavia, a questa prima prova di Aleixandre ancora manca la disciplina intellettuale ed estetica propria del verso di Guillén; carenza questa che si rinnoverà nella successiva pubblicazione del “35 che consta della ristesura di molte poesie in prosa che l’autore aveva composto disorganicamente in età giovanile, raccolte finalmente in forma definitiva in Pasión de la tierra.

Seguì la pubblicazione di Espáda como labios che per l’uso delle associazioni visibili già nel titolo dell’opera [laddove scrive che le spade sono “comelabbra, anziché dire “spade o labbra”, o ancora “spade fatte di labbra”, mirando ad innescare e attivare nel lettore una lettura fondata sulle fascinazioni intuitive ed associative] attirò su Aleixandre l’attenzione critica più negativa, che gli rimproverava di considerare la poesia fine primo e ultimo, nel totale abbandono di sé all’intuizione e al dialogo del subconscio, venendo così meno all’imperativo di Guillén che sosteneva appunto che “non c’è più grande ciarlataneria del subcosciente che si abbandoni alla sua trivialità”. Le successive tre opere, La destrucción o el amor (1935), Mundo a solas (1950) e Sombra del paraíso (1944), segnarono invece il raggiungimento della sua piena maturità poetica, riuscendo nel difficile compito di incanalare la sua fervida immaginazione in una struttura logica adeguatamente distaccata per la creazione di un linguaggio poetico privo di cadute e imbarazzanti abbandoni.

Del 1968 fu la pubblicazione di Poemas de la consumación, pubblicata nel 1972 da Rizzoli a cura e traduzione di Francesco Tentori Montalto.
Poesie della consumazione, quale ultima opera di Aleixandre, rappresenta la sintesi di un intero percorso poetico, che ha visto l’autore attraversare in modo sempre particolare ed originale il superrealismo spagnolo e le fascinazioni di un parnassianesimo cosmico-erotico, per poi approdare ad una maturazione dolorosa della materia poetica, che si fa mezzo per riflettere su una più matura visione della vita, della società e della morte per mezzo di un’angoscia terrena che sembra dibattere con il suo più intimo afflato metafisico. (nc)

***

Hai nome

Il tuo nome,
giacché tu l’hai. La vita non è stata
altro che un nome. Lo so, e non esisto.
Un nome respirato non è un bacio.
Un nome che s’incalza sopra un labbro
non è il mondo, è sognarlo da ciechi.
Così sotterra respirai la terra.
Sopra il tuo corpo respirai la luce.
Nacqui dentro di te: perciò son morto.

*

L’oblio

La tua fine non è una coppa vana
Che si debba vuotare. Muori, gettala.

Per questo lentamente tu alzi nella mano
Un brillio o il suo ricordo, e ardono le tue dita
Come neve improvvisa.
Non fu ed è. Fu tuttavia e ora tace.
Il freddo brucia e nei tuoi occhi nasce
La sua memoria. Ricordare è osceno;
peggio, è triste. Obliare è morire.

Morì con dignità. Chi passa è l’ombra.

*

Chi fa vive

La memoria d’un uomo è nei suoi baci.
Ma non è verità memoria estinta.
Numerare la vita ai baci dati
non è lieto. Ma darli senza memoria è più triste.
Con quanto è fatto si misura il tempo.
Fare è vivere ancora, o esser vissuti,
o prossimi. Chi muore vive e dura.

*

Il limite

Basta. Non è insistere guardare il lungo
sfolgorio dei tuoi occhi, finché il mondo finisca.
Guardai ed ebbi. Contemplai, passava.
La dignità dell’uomo è nella morte.
Ma il brillio temporale ha verità,
colore. La luce pensata inganna.
Basta. Il torrente di luce dei tuoi occhi
mi fu fede. Per essi vidi, vissi.
Giunto al fine, oggi bacio questi termini.
Il mio limite tu, il mio sogno. Sii!

*

I morti

Gli occhi neri, come quelli azzurri.
E i verdi, vivi. Tutti oggi, serrati,
dormono. La loro luce ora soffoca
il raggio minerale. Il cielo è alto
e freddo. Ma non contemplano, più freddi, i volti,
non danno verità. Né c’è altra verità che qui, dormienti,
questi miseri corpi. Taci e passa.

*

Vicino a morte

Non è tristezza che la vita scosta
o accosta, quando i passi sono molti e durano.
Là il monte, qui la vetrigna città,
o è un riflesso di questo sole estremo
che ordisce risposte
a distanza
per le labbra che vivono o vivendo
ricordano.
La maestà della memoria è aria
Dopo, o prima. Sono un sospiro i fatti.
Tela, sipario di sete gialline
Che un soffio muove e un’altra luce spegne.

*

Ieri

Questo sipario di sete gialline
che un sole dora e un sospiro fa fremere.
In un soffio vacilla l’ieri e geme.
È ancora nello spazio, ma pensato
o visto. Dormiente chi lo scorge non risponde:
vede un silenzio, è un amore che dorme.

Dormire, vivere, morire. Lenta la seta minuscola geme,
finissima, sognata: reale. Chi è è segno,
immagine di chi pensò, che resta.
Trama dove la vita si ordì lenta, e a filo a filo
fu, pel respiro in cui s’agita ancora.

È vivere, ignorare. Sapere, un’agonia.

*

Non inganni, felicità

Non inganni, felicità.
Una parola fu o sarebbe, e dolce
restò sul labbro. Come
un sapore di miele,
forse meglio di sale
marino. D’acqua di mare, di fresco
verde della campagna. Forse di forte grigio
del granito o potere, là toccato.

La gravità del mondo s’offre ai tuoi
occhi. No, non cercare
col labbro il biondo colore del bacio
ch’è miele, con l’amaro suo che può
durare. Vivere o no non vuol dire ignorare
la verità. Non ha altro gusto il labbro
che quello estremo di memoria,
oblio.

*

Attendi

In fondo una città che aspetta un vento.
In esso passi. Chi vede s’inganna,
chi non guarda conosce.
Fu luce tanto guardare: tu, cieco.

Avanza l’ombra. Taci. La città dorme ancora in fitto sonno.
Polvere buia, e occhi
nella tenebra o nebbia. Lassù, notte.
Taci. Dorme anche la distesa solitudine.
Solo, nudo,
tu attendi.

*

Chi fu

La districata luna s’è dissolta
sugli uomini. La valle intera è morta.
L’ombra invade la sua memoria, e polvere
Pensata, se è esistita, sarebbe. Ma non sogno.
Minerale la terra ha preceduto
qui la materia; qui l’uomo ha alitato.
Un oro divorato, un vento freddo:
questo soffio vicino è d’una nube.
Vuol durare. La pietra è assente. L’uomo amava.

La creatura pensata esiste. Ma non basta.
Non basterebbe. Bastare non può.
Pensato amore … Se alcuno che potesse mai pensò,
qualcuno dalle voci vigilanti
rese cauti i suoi occhi, sognò un fuoco.

Non è la luce amare, è la memoria.
Immaginata luce che risplende.
Le movibili ombre che consuma
– sottili, lievi, come carta arsa –
quella mente vorace che non vede.
Il pensiero da solo non si vede.
Chi è morto dorme, chi vede conosce.
Non fu, chi lo poteva. Non fu amato.
Uomo che interamente cancellato
Non fosti mai creduto, né creato,
né conosciuto mai.
Non amò, chi poteva. Chi fu, non è mai stato.

*

Fondo supremo

Vedemmo
illimitati volti, bellezza s’altri limiti,
una montagna eretta di profilo chiarissimo
e il mare là, con una sola nave
che voga sulle spine come onde.

Ma se il dolore di vivere come spume scambiabili
poggia sull’esperienza di morire ogni giorno,
non basta una parola a onorarne il ricordo,
perché la morte in lampi come luce ci assedia.

Solitudine d’altri baci, uccelli, clamori,
uomini sulle mura che come segni implorano.
E il mare, il mare secco come il suo abisso, esploso.
Il suo ricordo, pesci putrefatti nel fondo.

Baci piovano, vite che abitarono un mondo.
Imponetevi agli echi che ripetono nomi.
Immemori le voci ci chiamarono, e sordi
o dormienti guardiamo chi era da amare, morto.

*

Un termine

Conoscere non è uguale che sapere.
Chi ha imparato ascoltando; chi ha sofferto o goduto;
o chi è morto solo.
È un camminare o un correre, ma tutti vanno lenti
nel vento che veloci li trascina.
Nuotano contro corrente e indietreggiano,
portati dalle acque, e mentre tentano di rimontare
il loro corso, sono ormai alla foce.
È il termine, con tutto, ove sprofondano.
Libero mare oscuro in cui riposano.

*

Senza fede

Sono oscuri i tuoi occhi.
Fulgori lì che oscurità promettono.
Com’è sicura la tua notte,
quanto incerto il mio dubbio.
Guardo in fondo la luce e credo, io solo.

Benché tu esista, solo. È un vivere, esistere, ignorando.
Oscura ti avvicini
E nei miei occhi si sentono altre
Luci, senza guardare se vi brillano.

Non brillano, ormai, sanno.
È sapere, conoscere? Non ti conosco e so.
Sapere è respirare ad occhi aperti.
Dubitare? … È, chi dubita. Solo morire è scienza.

*

Bacio postumo

Tacito, ancora le mie labbra sulle tue,
io ti respiro. Sogno in vita o è vita.
L’immaginata vita è lì nel bacio
Che vive solo. Senza noi, risplende.
Noi siamo l’ombra. È esso il corpo se veniamo meno.

*

Le parole del poeta

Dopo le parole morte
e quelle ancora pronunciate o dette,
in attimi d’ira o di delizia, d’estasi o d’abbandono,
quando l’anima, desta, negli occhi s’intravede
più come luce che non suono aperto.
Esperto, giacché incline lo sarebbe
in virtù del suono sulla pagina aperta,
appoggiato a parole, o queste insieme ad esso penetrano
l’aria e riposano. Non con virtù suprema,
ma con un ordine: se vogliono, infallibile.
Giacché, obbedienti, le parole non si scostano
dalla loro virtù e docili
si posano sovrane, sotto la luce appaiono
grazie a una lingua umana che a esprimerle si dedica.

E la mano riduce
Il suo moto a trovarle,
anzi a scoprirle, utile, mentre brillano, svelano,
se pure, disilluse, non s’involano.

Così, rimaste talora, esse dormono,
residuo estremo d’un fuoco non tocco
che se è morto non scorda,
ma debole un ricordo ha lasciato, e là stesse.

Tutto è notte profonda.
È, morire, scordare parole, molle, vetro, nubi,
esser fedeli a un ordine
invisibile il dì, ma certo nella notte, in grande abisso.
Lì la terra, severa,
non consente altro amore che del centro.
Né altro bacio che esserlo.
Solo l’amore che, schiacciato, irradia.

Nelle notti profonde
Una corrispondenza troverebbero
Le parole lasciate o addormentate.
Sopra fogli volanti, chi le conosce o scorda?
Risoneranno forse una volta, chissà,
in qualche rara anima fraterna.

***

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