Esilio di voce, un libro sinfonico che prelude ad una scelta di silenzio: le infinite pieghe (piaghe) della poesia di Francesco Marotta

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Francesco Marotta ha deciso di mettere interamente in rete in formato pdf  l’ultimo libro “Esilio di voce”, da lui pubblicato nel 2011 per i tipi di Smasher.
Essendo in totale sintonia con la sua scelta di “indipendenza editoriale” e di libertà svincolata da ogni sorta di comunanza pseudoletteraria, vi invito a leggere questo prezioso libro, gratuitamente scaricabile semplicemente cliccando QUI

Mentre di seguito ripropongo la mia nota di lettura a quest’opera a me particolarmente cara.
buone letture.
nc

Esilio e desnacimiento.
Una lettura su “Esilio di voce.

Tracciare le coordinate di una poetica complessa come quella di Francesco Marotta, impone un’attenzione che ripercorra la sua vastissima produzione, con la consapevolezza di essere di fronte a un caso letterario, che non può essere “rivelato” e sintetizzato senza che se ne consideri l’intero e continuo percorso poetico, talmente frastagliato di echi e rimandi, da generare una nuova “scoperta” ad ogni “incontro” di senso e lettura.

Nell’approssimarci a un qualunque testo poetico è necessario ricorrere a diversi piani di lettura: un primo piano che ne metta in luce le caratteristiche linguistiche, stilistiche e quindi tecniche; un secondo tipo d’approccio che miri ad esaminarne, analizzarne (o cercarne) il significato, ed un terzo che provveda a sintetizzarne il risultato nella valutazione di come e quanto significato e significante coincidano nella stesura, ma potremmo anche dire nell’esecuzione, di suono e senso in partitura.

Nel caso della poesia di Francesco Marotta, e nel caso specifico di “Esilio di voce”, l’azione che si palesa necessaria è la partecipazione attiva nei confronti della “mise en abîme” che l’autore opera su carta, aderendo dunque all’erranza, al cammino, al suono, alla ferita dell’ombra e della luce, di cui inevitabilmente e soggettivamente ci si renderà attori.

Trovare le chiavi di una poesia, trovarle tutte, per farne un’oggettiva spiegazione, una parafrasi semplicistica, non è salutare e non serve né al lettore né tantomeno alla poesia stessa, ma nel particolare caso della poesia di Marotta, non è proprio possibile, giacché essa nasce da una scintilla così intima e profonda, che non la si può smembrare su carta per analizzarla scientificamente. Scinderla nel suo “inner” come fosse un atomo, una cosa, un nucleo, sarebbe profana vivisezione, che non porterebbe a nulla, essendo questa scrittura talmente sovrastrutturata da far sì che sia sempre il nostro nucleo, la nostra scintilla implosa a riflettersi nel testo – nostro malgrado.

Ed è questo a rendere ad Esilio di voce la sua “aura incantata delle origini”[i], ossia quella incontaminata, aurorale purezza di pensiero ed intuizione, che transitando svolge il suo ruolo “materno”, femminile ed originario nel concepire l’esilio come desnacimiento[ii], ossia disappropriazione volontaria di tutto ciò che ci era per nascita e identità, attraverso la perdita, il rifiuto estremo, la separazione ed il distacco, l’assenza.

A farmi sentire questa poesia del “ritorno” come aurorale, nel senso materno e femminile del termine, è stata anche la similitudine presente all’erranza della Pozzi, laddove parlando del ritorno alla montagna/madre aurorale, Antonia definisce il suo “esilio” come condizione luminosa e errante che, ponendola all’orlo estremo dell’attesa che nasca un’aurora fin nel cuore del brullo ventre perché fiorisca rosai, traduce in gesto di nascita (desnacimineto), quello che poi si rivelerà annuncio di morte.

E difatti, parlando del suo stesso esilio, Maria Zambrano dice che si tratta di “qualcosa di sacro, di ineffabile”, una condizione per cui si esce “dal presente per piombare in un futuro sconosciuto, […] senza dimenticare il passato”, ed ancora aggiunge che esso è il ripetersi di un’ “ora tragica e aurorale” in cui “le ombre della notte cominciano a mostrare il loro senso e le figure incerte cominciano a rivelarsi al cospetto della luce, l’ora della luce in cui si danno convegno passato e presente”[iii]; l’esilio di Francesco Marotta, è bene sottolinearlo, è un esilio di voce nella sua stessa voce, e si compone di tre elementi, che sono incipit e titolo delle tre sezioni del suo errare:

IMAGO

si inciampa in un grido
che si dissangua in luce
ogni volta che guardiamo le stelle
nessuna soglia ci separa dall’assenza
nessuna parola così profonda
da poterla tacere

*

SPECULUM

sarà parola solo l’incompiuto legame
che irrompe dalla cruna delle labbra
e allarma gli specchi del risveglio
indossa l’arte di contarsi ferita
e di affidarsi al flusso interminato
che spazza il sangue in refoli di nebbia
parvenze animate a farsi voce

*

VULNUS

ci vuole la luce violenta di un rogo
per accostare l’abisso di volti che migrano
immaginare una sosta tra fioriture di imbarchi
liberare le tue labbra dal gelo
madre che parli l’infanzia dei giorni

Marotta sembra ripercorrere un cammino di erranza apolide, che rimanda al non-luogo del puro pensare in cui, direbbe la Arendt, l’io consapevole della sua condizione di escluso (“paria consapevole”[iv]), diventa io pensante, ossia quell’essere che privo delle sovrastrutture dell’appartenenza sociale, vive una dimensione atemporale in cui il suo stato di estraneità fa i conti con la sintesi “sospesa” del tempo e della storia (nell’accezione zambraniana). L’esilio di voce in Marotta è silenzio che si fa voce, parola scritta, che in vari passaggi assume il tono di un’accorata preghiera affinché in essa stessa – preghiera e parola – si rinnovi di volta in volta l’erranza, il cammino, il “desnacimiento”.

Al dettato fluido, liquido, si sovrappongono immagini oniriche di quella che ho già definito come una “messa in abisso”, originando dunque uno sdoppiamento di voce, un canto stratificato tra l’ “io pensante” e la sua “memoria storica e onirica”: le luci si rincorrono in un susseguirsi di tinte che vanno dalle più fosche alle più tenui, e che sembrano trattenere e nel suono e nell’immagine, tutto il carico di vita e di morte che la storia ha strappato al grido dell’innocenza, alla “parola bambina”, alla voce pura.

Labiali, gutturali, liquide, dentali, palatali sono le vocali e le consonanti, praticamente le note, di una composizione di parole che musicheranno il pensiero – dentro di noi – in dialogo, affinché avvenga il transito, quale testimonianza, traccia e memoria in cui la componente onirica si manifesta come vettore di creazione poetica, con tutta la carica ancestrale del “sueño creador”[v].

La liquidità della parola, nei versi di Francesco Marotta, si consuma nell’analisi del dolore, nell’avvento zambraniano del “sacrificio”[vi]. Il verso spesso appare sincopato, spezzato, irrisolto e ripreso con profonda consapevolezza nella gestione del verso, che appare ricucito in enjambement, sinafie e sinalefi, che non hanno unicamente il compito “formale” di conferire il voluto ritmo – musicale quanto ottico – al “colon”, ma – ancor più – il senso sciolto dell’affermare il disordine del tutto e del suo stesso contrario nello scorrere del pensiero.

La fusione di suono, senso, visione e significato, in Marotta raggiunge apici talmente elevati da consentire la lettura di più frammenti dell’opera nel loro esatto contrario, dando luogo cioè ad un immagine speculare capovolta:

*

dissipare la memoria di uno specchio
senza tradirsi al pensiero
di ciò che rimane muto in quella fiamma
in quella banda d’illusione
da spremere in profili d’acqua
orbite di scintille e due papaveri
ardenti per occhi e lasciare
che sia questa la sera la lingua
che s’intorbida come un respiro
d’erba sul ciglio delle sabbie
l’oscuro di una donna tra le braccia
in un polverio di sguardi
che recitano rosari di luce
in faccia alla morte nel qui e ora
che tace che si tace insieme

*

sorprendersi nel novero delle ombre
nell’eco che ci volge
al discorrere quieto delle siepi
in tutto quanto va a morte
tra sostanze destinate oscure
e nel folto intuire la traccia
di ciò che ci precede senza parole
di ciò che si mostra senza lasciare
traccia

*

restituire l’immagine
al vuoto che precede alla pronuncia
perduta dove suono e colore
si congiungono indifesi
in ciò che arde senza pensiero
nel bianco che annotta inconsapevole
lungo il filo reclinato della luce
solo l’ombra che resiste intatta
al congedo dalla sua dimora
conserva legame e distanza
l’eco del sentiero inaugurato
dal passo oscuro della lingua

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Per approfondimenti critici sull’opera di Francesco Marotta, si consiglia la lettura dei seguenti lavori:

Vortice immobile – prefazione a “Esilio di voce”, a cura di Marco Ercolani – http://www.edizionismasher.it/component/content/article/77/122-francescomarotta.html

– NAZIONE INDIANA: Nota per il compagno Francesco Marotta, a cura di Francesco Forlani: http://www.nazioneindiana.com/2012/01/21/nota-per-il-compagno-di-viaggio-francesco-marotta/

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[i] “Lascia alla parola l’aura / incantata delle origini, / il lume che le compete / per nascita e destino, / il fondo oscuro / matrice d’ogni luce”. Francesco Marotta, Per soglie di increato – Bologna, Edizioni Il Crocicchio, 2006 – postfazione di Luigi Metropoli.

[ii] Maria Zambrano, L’agonia dell’Europa, Marsilio, Venezia 1999.

[iii] Maria Zambrano, le parole del ritorno a cura di Elena Laurenzi, Introduzione di Mercedes Gomez Blesa, Città Aperta, Enna 2003, pp. 24/25

[iv] H. ARENDT, Rahel Varnhagen. Storia di una donna ebrea, a cura di L. Ritter Santini

[v] F. J. MARTÍN – Università di Siena – El “sueño creador” de María Zambrano – (Razón poética y hermenéutica literaria) http://cvc.cervantes.es/literatura/aispi/pdf/09/09_229.pdf

[vi] «la categoría de ‘sacrificio’ contiene, a la vez y en unidad indisoluble, un principio de ‘razón pura’ –la necesidad– y un principio de ‘razón práctica’ –la libertad–, una verdad y un valor». J. C. Marset, Hacia una ‘poética del sacrifcio’ en María Zambrano, Cuadernos Hispanoamericanos, n. 466, 1989, pp. 101-118.

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